Juliane è capo della Polizia a Parigi. Vive in una stupenda casa in mezzo alla campagna dove va a correre tutti i giorni e si allena al tiro con l’arco. Scrive libri di successo che firma con il cognome del marito perché è più elegante. Ha una figlia grande e un marito che ama immensamente e da cui è ricambiata. Soprattutto, la distingue una legge morale che non prevede cedimenti e quando qualche collega sbaglia, lei non perdona, pretende per lui il massimo della pena. Juliane è tutta di un pezzo, ma anche lei ha un punto debole. La sorella più giovane, ribelle e imprevedibile, morta per un incidente o forse un mascherato suicidio. Spettava a lei proteggerla e sente di non aver fatto abbastanza. Una notte, però, nel suo mondo perfetto comincia a insinuarsi una crepa, qualcosa che risveglia il suo fiuto da poliziotta, un’inquietudine sommessa che non si placa. Aspettando il marito di rientro da un viaggio di lavoro, sente arrivare la sua macchina e lui, invece di entrare subito a casa, si ferma fuori a fumare una sigaretta, stacca un fiore e poi sparisce nel capanno degli attrezzi. Lei osserva tutto da dietro le grandi vetrate e quando lo sente infine aprire la porta, si fa trovare a letto fingendo di dormire.
Comincia così uno sgretolamento inesorabile, le crepe si allargano a dismisura e le fondamenta di una vita che credeva solida cedono ripiegandosi su se stesse ad una ad una. Il sospetto nei confronti del marito, infatti, la porta a seguirlo di nascosto nella loro casa di Parigi quando lui via un paio di giorni per lavoro. Si ritrova così, suo malgrado, per una manciata di minuti calcolati male, ad assistere a un appassionato amplesso del marito nella stanza contigua, mentre lei, in bagno trema di rabbia e disperazione ripiegata su se stessa nel lavandino. Da questo momento in poi, per lei è una caduta libera verso l’inferno. Si troverà coinvolta in una situazione pericolosa e, per difendere una madre e una figlia, uccide un uomo con la pistola d’ordinanza, ma ha in seguito la lucidità di estrargli il coltello dalla tasca e lasciarglielo accanto, per simulare la legittima difesa.
Quel tarlo dentro di lei non smette di lavorare e la porterà a scoprire il tradimento estremo, cioè la relazione del marito con la sorella che, proprio prima di morire, supplicava l’uomo di lasciare tutto e raggiungerla perché era al limite della sopportazione. Tutto crolla e dentro di lei urge il desiderio di vendetta. Il regista Jean Paul Civeyrac ci regala una magnifica sequenza notturna con una bravissima Sophie Marceau, vestita da arciera, che scocca frecce al marito e alla sua amante. Nel dialogo di confronto con l’uomo che l’ha accompagnata per tutta una vita, lui la mette di fronte alla sua irremovibile legge morale, così immensamente granitica da farlo sentire costantemente imperfetto e smisuratamente umano. Ecco il perché dei tradimenti e delle menzogne, il senso di inadeguatezza al suo cospetto, la fragilità dell’imperfezione della vita di fronte agli imperativi categorici dell’etica.
È una pattuglia di polizia a sorprendere Juliane, all’alba di un nuovo giorno, mentre dorme tra l’erba nei pressi di un faro. Mentre i poliziotti stanno andando via, li richiama indietro e si autodenuncia, senza sconti, assumendosi le responsabilità del suo abuso di potere e dei gesti insensati dettati dall’estrema gelosia. “La legge morale in me e il cielo stellato sopra di me”, scriveva Kant nella parte conclusiva della Critica della ragion pratica. È un’espressione magnificamente illustrata dalla camera di Civeyrac che, con una lenta panoramica, si sposta dal volto di Juliane ai fili d’erba, fino ad arrivare al mare, l’immensità rassicurante, l’ordine necessario e universale della natura.