È un film senza fronzoli, l’opera d’esordio della svizzera Caterina Mona, Semret. La prima inquadratura della protagonista ce la mostra di spalle, la camera la segue mentre cammina per i corridoi di un ospedale. Un’infermiera esce da una stanza e le mette in braccio un neonato piagnucolante e lei comincia a cantare una nenia, cullandolo. Semret è una donna eritrea che lavora come praticante nel reparto prenatale di un ospedale e sogna di poter essere ammessa in ostetricia. Schiva, riservata, non ride mai, lavora sodo. Ha una figlia di 14 anni e nessuna relazione amicale. I problemi insorgono quando la figlia le chiede di partecipare a un concerto africano e lei finisce per acconsentire controvoglia. Lì, mentre lei incontra persone che conosceva, la ragazza si immerge in una cultura fino ad allora ignorata. Le piace la musica, le piace il cibo, è irresistibilmente attratta da questo nuovo mondo inesplorato. A complicare la situazione, ci si mette il nipote di un giovane che Semret conosce perché fa manutenzione in ospedale, il quale lega immediatamente con la giovane. I due si frequentano di nascosto e lui le racconta la terra che ha lasciato per venire in Svizzera e la incuriosisce ancora di più facendole vedere le foto dei luoghi e delle persone.
Accade così che Semret, che ha rinnegato e rimosso il suo passato, si debba confrontare con le insistenze della figlia che prende a chiederle ossessivamente di suo padre e manifesta il desiderio di riallacciare quelle potenti radici da lei negate. Da questo viaggio interiore, emergeranno ricordi scomodi e oscuri che Semret dovrà affrontare una volta per tutte. La regista ci racconta una storia di immigrazione e pregiudizi che spesso la discriminano per il colore della sua pelle. Come quando l’autobus che la vede arrivare trafelata non apre le porte o quando in ospedale la ritengono responsabile per una dimissione troppo avventata. Semret, che si sente svizzera e che crede di essere pienamente integrata, si rende conto di non esserlo mai stata davvero. Capisce, una volta per tutte, di dover fare i conti col suo doloroso passato perché sua figlia non è più disposta ad accettare la prigione fittizia da lei costruita per difendersi dal mondo.
Il film deve molto all’interpretazione della protagonista, Lula Mebrahtu, davvero molto brava nell’impersonare una persona ferita e raggelata su se stessa: sul suo volto passano tutte le sue emozioni interiori, semplicemente attraverso uno sguardo o il tremolio delle labbra, ogni eccesso è trattenuto. La regia della Mona la segue, pedinandola con la camera, la accompagna sempre da vicino, tranne nel finale. Madre e figlia hanno litigato pesantemente e la ragazza se n’è andata da un’amica per studiare in pace in vista dei prossimi esami. In un gesto di riconciliazione, Semret va ad aspettarla davanti alla scuola e qui l’occhio della camera si ferma un passo indietro, nel rispetto di quell’incontro che segnerà una svolta nel loro rapporto, un confronto tra donne adulte che si preannuncia per loro un nuovo inizio.