Una lista per chi è stanco dei soliti film natalizi e ha voglia di titoli non così scontati (più qualche immancabile). Ecco gli ultimi dieci che vi proponiamo:
Non è certamente la scelta più originale, cercando un connubio tra l’horror e il Natale. Ma è anche vero che il film di Bob Clark - regista capace di passare dallo zombie movie (il bellissimo La morte dietro la porta) al demenziale (Porky’s) - è uno di quei titoli che hanno spalancato molte porte. Con Black Christmas - Natale rosso sangue non nasce soltanto il sottofilone del genere dedicato alle feste, oppure quello ambientato nei collegi femminili: come ormai è unanimemente riconosciuto ovunque, è qui che nasce infatti lo slasher tout court, quattro anni prima di Halloween di Carpenter (il quale farà proprie alcune trovate stilistiche, a partire dalla soggettiva dell’assassino) ma dopo una manciata di titoli, sconosciuti ai più, che già ne avevano gettato le basi. Al di là dei primati, comunque, è un film che oggi fa ancora paura: anche e soprattutto in virtù delle sue luci di Natale, dell’atmosfera di festa e delle riunioni sotto l’albero. Il body count è ancora limitato, ma Clark sa costruire un clima di tensione con pochissimi elementi (la voce del maniaco al telefono, il montaggio alternato durante una sequenza di omicidio, con i bambini che intonano i canti natalizi al piano di sotto), e tutta la parte finale è da cardiopalma. Senza contare naturalmente il fatto che, per essere uno dei padri che hanno scritto le regole di un genere, alla fine è il primo a mandarle all’aria (chi l’ha visto sa a cosa mi riferisco).
Giacomo Calzoni
Botte di Natale è un film profondamente natalizio, non soltanto alla lettera, per il suo titolo assai gradevole da cine-panettone. Avrebbe meritato maggiore fortuna anche in Italia, ma l’atteso successo al botteghino non ci fu perché i vecchi film di Bud Spencer e Terence Hill passavano e passano di continuo in televisione, come la serie inaugurata da Lo chiamavano Trinità…, che compie trent’anni. Così la gente non è andata a rivedere a cinema la coppia matura di Botte di Natale. Se lo guarda come gli altri loro film, delude. Prendendolo invece per quello che è, non per il film che si vorrebbe a tutti i costi rivedere, allora Botte di Natale rivela una sua garbata natura commemorativa, malinconica, commovente. Non c’è la musica di Franco Micalizzi, né quella di Ennio Morricone. La partitura amorosa, agli antipodi del classico spaghetti-western, è di Pino Donaggio che porta in dote al film un sentimento di contemplazione allegra del passato. In veste di regista Terence Hill combina la nostalgia alla sua intima vena religiosa che lo ha già spinto a esordire dietro la macchina da presa con Don Camillo, proseguendo sul grande schermo con lo stesso congeniale compositore a suon di Botte di Natale senza poi demordere con Il mio nome è Thomas. Le tante stagioni di Don Matteo e tra le righe, i due Trinità pregressi aiutano meglio a capire oggi il senso originale del suo percorso interiore. Don Camillo, Botte di Natale, Il mio nome è Thomas, Don Matteo e con effetto retroattivo i due Trinità? Qualcuno a questo punto può storcere il naso. Nessun problema. L’inciso serve qui a consentire a chiunque lo desideri, di farlo. Finito? Bene. Proseguendo, Terence negli anni ’70 di materialismo militante e violento certe cose se le teneva dentro, per timidezza e non dover fare a botte davvero con l’ideologia dominante. Già a quei tempi l’enorme successo commerciale diventava un peccato grave da espiare nelle recensioni. E i suoi western erano stati aggettivati come “parrocchiali”. Mancava solo che il buon Terence, acuto lettore di Carlo Carretto, in quel momento si esponesse con il suo credo. Botte di Natale è dunque un debito d’amore di Terence verso l’amicizia senza tempo con Bud. Una lettera scritta a mano che prova a riunire anche diverse generazioni di spettatori e di certo riunisce i due protagonisti come unisce di fatto le famiglie: Jess Hill, il figlio di Terence, è lo sceneggiatore mentre Giuseppe Pedersoli, il figlio di Bud, il produttore di questo film affettuoso, di “botte” simpaticamente simulate, tenere, sempre nonviolente. Botte di Natale, sorridente com’è più che ridanciano, l’allegria autentica la porta dentro. All’esterno la esibisce soltanto come gesto affettuoso: lo stesso che induce Terence a rivolgersi al romanticismo melodico ed epico di un veneziano importato in Italia dagli Stati Uniti come Donaggio, ma anche a veterani come lo scenografo Mario Garbuglia, il montatore Eugenio Alabisio, la costumista Vera Marzot. Con occhi diversi, non da Grinch anacronistici in guerra con il Natale e ancora con questo o quel film, Botte di Natale si scopre a maggior ragione, soprattutto sentimentale, un’opera - si diceva - profondamente natalizia. Cioè nata e intonata con le note del cuore.
Anton Giulio Mancino
Dopo Natale, Capodanno. Anni '50, Londra. In un teatro addobbato e pieno di palloncini colorati, una folla di persone festeggia l'arrivo dell'anno nuovo: gente in costume che balla pigiata, beve, urla, urla, si spintona. Dall’alto di un palco del teatro, come anni prima nella scena iniziale di L’età dell’innocenza, Daniel Day Lewis, che interpreta il sarto Reynolds Woodcock, cerca la donna che ama, la moglie Alma Elson (Vicky Krieps), che per una sera ha abbandonata la gabbia della loro unione ed è corsa a divertirsi. Disgustato dalla folla da cui ha sempre cercato di tenersi fuori («It hurts my feelings», dirà più avanti a proposito dell’imbarbarimento dei gusti della gente in fatto di moda), Reynolds individua Alma come in Sogno d’amanti di Lean; scende in platea, si muove come una belva in mezzo a una radura, si volta con furore verso chi lo strattona, vede che lei è stata travolta come nel finale di Viaggio in Italia e che ora lo attende in un’ala appartata del teatro. Marito e moglie si guardano, lei ha un’aria offesa, indignata, lui, che ha fatto una scenata quando l’ha vista uscire di casa, sa di aver sbagliato ma è troppo orgoglioso per ammetterlo. Non dicono una parola, tutt’attorno l’orchestra suona, la gente continua a festeggiare, il tempo passa, la coppia resta intrappolata nella sua dinamica informe. Si ritroveranno a ballare soli nel teatro, tra i resti della serata, scampati al pericolo del mondo ed esposti al pericolo della loro unione, tra la folla e il silenzio, la follia del caos e la perversione del controllo. E tutto questo in poco meno di tre minuti di cinema straordinario.
Roberto Manassero
Né Natale né Capodanno, ma quel periodo sospeso e frenetico che precede le feste, in cui tutti si danno da fare ad allestire addobbi, cercare regali, organizzare party benauguranti, sbronzarsi, ballare, baciarsi, fidanzarsi, scazzottarsi. Anche in tempo di guerra. Anche a una settimana dal giorno in cui i giapponesi bombardarono Pearl Harbor, costringendo gli americani a entrare in guerra contro l'Asse. 15 dicembre 1941: al tramonto, una bellisima ragazza si tuffa nuda nell'oceano delle coste californiane e, mentre cominciano a echeggiare le celeberrime due note di John Williams che nel 1975 anticipavano gli assalti del grande squalo bianco, viene improvvisamente sollevata dall'acqua dal periscopio di un sommergibile nipponico che sta scandagliando le coste nemiche alla ricerca del suo obiettivo militare. Hollywood, cuore e simbolo degli States. Nel frattempo, il capitano Wild Bill Kelson, sigaro masticato tra le labbra e bambolina di gomma hawaiiana portafortuna tra le palle, sta facendo danni irreversibili con il suo caccia da guerra in una stazione di servizio nella Valle della Morte. E il generale dell'aviazione Stillwell (realmente esistito) vuole andare a vedere Dumbo (uscito quell'anno) per commuoversi sulla storia dell'elefantino volante. Tutti convergono su Los Angeles, dove militari, aviatori, marinai, bellezze locali, un giovane cuoco gran ballerino e una perfetta famiglia media americana si stanno preparando a festeggiare. Luogo deputato al grande party: il salone Uso sull'Hollywood Boulevard. Costò più o meno 35 milioni di dollari; in America andò male (circa 31 milioni), ma in parte si rifece in Europa (circa 60 milioni). Comunque poco, per le medie di Spielberg, alle prese con la sua prima commedia. Scatenata, irridente, più demenziale del primo demenziale di John Landis (Animal House, l'altro I Blues Brothers arriva l'anno dopo, nel 1980), con parte del gruppo del Saturday Night Live (Belushi, Aykroyd, Tim Matheson, John Candy). Distruzione totale: della sala Uso (la sequenza centrale, con il ballo e la rissa che ne consegue, è un meccanismo cinematografico straordinario), dell'Hollywood Boulevard, di aerei, auto, camionette, sidecar, della grande ruota panoramica del Luna Park, in cima alla quale è stata piazzata una guardia civile composta da un poveraccio che soffre di vertigini e un giovane ventriloquo ex paziente del manicomio con il suo pupazzo, della graziosa casa sulla costa che si trasforma in un avamposto anti-sommergibile e viene letteralmente fatta a pezzi, più dal suo proprietario che dai giapponesi. 118 minuti di divertimento inarrestabile, antimilitarista, antiretorico, antifamilista, antibuonista, antitutto. Highly recomended in lockdown.
Emanuela Martini
I film sul Natale o con il Natale dentro la trama si dividono inevitabilmente in due categorie. Quelli che ne celebrano le virtù e gli altri che ne esacerbano l’ipocrisia e affondano il coltello nella piaga. Inutile dire in quale delle due possa rientrare a scatola chiusa non solo Parenti serpenti, ma con o senza il Natale di mezzo qualsiasi film di Mario Monicelli. Il quale infatti non aveva certo bisogno della cornice natalizia per dar voce all’innato, irridente cinismo. Un saggio di quel che possono significare le ricorrenze maggiori dell’anno, Monicelli l’aveva già dato a proposito della notte di Capodanno in uno dei suoi classici sessant’anni fa: Risate di gioia. Parenti serpenti però avendo dentro anche il Natale ci va giù ulteriormente pesante. Aumenta il carico di cattiveria necessaria per ribadire quel che la filmografia di Monicelli non ha mai smesso di sottolineare, ridendo e non scherzando. Addirittura è più di un film, incarna, nel senso anche che va anche dentro la carne viva dei personaggi, una proverbiale consuetudine nazionale. Monicelli la rilancia come costatazione di ordine culturale, politico, sociale, antropologico, geografica, economica. Terminata la serie di aggettivi che ne sottolineano il contesto di lunga durata, va detto che le sue dimensioni sono inversamente proporzionali alle ambizioni. Il fatto che Parenti serpenti sia un film “piccolo piccolo”, popolato di “borghesi piccolissimi” anche moralmente e per restare in metafora “inviperiti” dalle proprie miserie e “piccolezze”, semmai determina l’effetto opposto. Sullo schermo viene drammaturgicamente circoscritta una situazione modulare di totale assenza di scrupoli, legami familiari, decenza tribale. La disumanità che si annida in questo film partecipa di una realtà allargata. Celebra il rito dell’incontenibile inciviltà collettiva che a stento le pareti domestiche, provinciali e per ragioni contingenti regionali, riescono a nascondere. All’autore la diretta cornice del “santo” Natale consente dunque di rincarare la dose: le belle famiglie italiane “covano” – è ancora il caso di dire - le peggiori inclinazioni e pratiche ignobili. Rivisto oggi, complice un Natale chiusi nell’accezione imposta da lockdown, non dalla tradizione, può regalare un’esperienza raddoppiata, anzi moltiplicata. Sembra non più di vedere quel film, ma con largo anticipo tanti altri a livello di cattivo spettacolo italiano, compreso questo, odierno. Come se Monicelli avesse creato a monte e con cognizione di causa un prototipo in grado di rigenerarsi in continuazione e diventare ogni anno il remake aggiornato, aggravato e incancrenito che supera il precedente. Fino a raggiungere il Natale presente dove i “parenti serpenti” in numero limitato solo dal distanziamento sociale sono gli unici consentiti per decreto sovra-regionale. “DPCM”, secondo l’acronimo corrente, regia ante litteram di Mario Monicelli. Versione 2020. Titolo: Parenti serpenti.
Anton Giulio Mancino
Vecchi, ricchissimi e azzimati, Mortimer e Randolph Duke, storici broker di Filadelfia, sono due veri bastardi. Infatti scommettono (un solo dollaro) sulla vita del loro più abile giovane socio, Louis Winthorpe, e di Billie Ray Valentine, ingegnoso accattone, senza tetto e nero: cosa accadrà scambiando improvvisamente i loro posti nella società? È la genetica o l'ambiente a determinare le attitudini di un individuo? Conosciamo tutti la storia di Trading Places (il titolo originale, che significa "scambiarsi i posti", ma anche "luoghi di scambio" - la Borsa), probabilmente il film di Natale (e segg.) più scorretto di sempre, che resiste in testa alle classifiche festive anche in questi anni di melliflua correttezza politca e ipocriti buoni sentimenti. Diretto da John Landis in stato di grazia, con un cast formidabile (la coppia Aykroyd & Murphy, quella Ralph Bellamy & Don Ameche nella parte dei due pessimi Uncles Scrooge, la prostituta Jamie Lee Curtis, quasi sempre quasi nuda, e il maggiordomo Denholm Elliott, spesso alticcio), mette a segno un fuoco di fila di nefandezze salutari. Su tutte il Babbo Natale più schifoso della storia del cinema (Akroyd che, rovinato, s'intrufola mascherato al party aziendale), sporco, scamiciato, tanto puzzolente che un cane si ferma, lo annusa e gli piscia su una gamba, che s'ingozza di salmone tra i peli della barba grigiastra, si sbronza, barcolla, tenta di spararsi e la pistola fa cilecca. E una festa di Capodanno sfrenata (sul treno Washington-New York), dove impazza James Belushi (allora noto solo in tv, il fratello era morto l'anno prima) dentro un costume da scimmione nel quale viene poi infilato il funzionario complice dei due malevoli vecchi dai quattro "vendicatori", che lo rinchiudono nel gabbione di un vero gorilla in calore, che s'innamora istantaneamente di lui. Con conseguenze ovvie, anche se fuori campo. Una macchina perfetta, che demolisce uno per uno tutti i luoghi comuni sulla bontà riacquistata in questo periodo dell'anno e non cede a tardivi pentimenti o illuminazioni benefiche. Perché le consuetudini sociali sono un gioco al massacro, come riassume bene l'ouverture delle mozartiane Nozze di Figaro, in apertura e chiusura. Bello anno a voi!
Emanuela Martini
Roubaix, un Noël. Non un racconto ma tanti racconti che si mescolano tra ricordi, ricostruzioni, rancori, lutti, amori, perdite e ritrovamenti attraverso cui i personaggi di Desplechin esercitano il loro diritto di parlare di se stessi. «Spesso, l’idea da manuale di sceneggiatura è che, nel cinema realista, il personaggio debba essere più stupido del regista e dello spettatore, che non abbia cioè il diritto di dire la verità su se stesso. Ma si tratta di un’idea banale, e se filmassi momenti banali avrei il timore di annoiare lo spettatore. Quello che invece adoro nel cinema di Woody Allen, di Nanni Moretti o di Quentin Tarantino è che i personaggi hanno la capacità e il diritto di parlare di se stessi. Questa verità passa attraverso il testo ma anche attraverso i gesti, pensati e scritti con precisione come le parole», dice cosi Arnaud Desplechin ed è esattamente quel che fanno i protagonisti di quell’esplosa storia corale che è Racconto di Natale. Un coro dissonante in cui in fondo non si fanno che assoli, ognuno carico del proprio dolore, della propria personale, e dunque legittimamente distorta, visione della storia famigliare che parte con la morte del piccolo Joseph e da lì continua fino alla malattia di Junon. Le storie, i punti di vista, i racconti di Natale vengono messi in scena dagli stessi protagonisti attraverso la posizione che assumono, i gesti che fanno, le lacrime che versano, le fughe che tentano cercando di fare i conti con le cicatrici che portano e con quelle nuove che si procureranno. Cosi “parlano”, si svelano, si ritorcono su se stessi amplificando i propri conflitti senza avere la pretesa di pacificarli. Ognuno, semplicemente, alle prese con il proprio racconto di Natale.
Chiara Borroni
È notizia di pochi mesi fa che Stallone sta lavorando al director’s cut di Rocky IV. Fra tutti i capitoli della saga, proprio il quarto. Perché? Probabilmente per via del fatto che nonostante non sia il migliore (nemmeno il peggiore, ma insomma…) è senz’altro il più vivo nella memoria collettiva, oltre che uno degli oggetti pop (s)cult più famosi di tutto il cinema degli anni Ottanta. Rocky IV è lo stallonismo all’ennesima potenza: muscolare, ideologico, grossier. Tutto è eccessivo: i personaggi, le location, i combattimenti sul ring e ovviamente il Natale. Utilizzato come arma politica da contrapporre al severo laicismo sovietico e scelto per essere il giorno in cui disputare, a Mosca, l’incontro del secolo fra Balboa e Ivan Drago. Ma in fondo funzionale anche per il messaggio di pace, fratellanza e amore che Stallone – volto tumefatto, pettorali sudati e mandibola sbieca – pronuncia alla fine del match (vinto) con il pubblico ormai dalla sua parte e in un palazzetto bardato di bandiere rosse che sembrano quasi addobbi di Natale. Persino il Gorbačëv (senza voglia sulla fronte) del film infrange il protocollo e si alza ad applaudirlo, mentre lui con bandiera a stelle e strisce sulle spalle saluta e fa gli auguri al figlio rimasto in America. Altro che scult: Stallone nell'85 già pronosticava la Glasnost’, la dissoluzione e persino l’eredità infinita, eterna e inesauribile dell’immaginario anni Ottanta.
Lorenzo Rossi
Il Natale chiusa in casa, intrappolata dietro le finestre e tra le luci della sua abitazione, riflessa come nello schermo del televisore nuovo di pacca regalatole dai figli che la vedono e la vogliono come madre, vedova e anziana, è quello che passa la Cary Scott di Douglas Sirk in Secondo amore. Un classico del mélo hollywoodiano, un manifesto del femminismo hollywoodiano, un esempio dello stile fambloyant del regista, con i colori e gli elementi artificiali (la casa, le scale, le architettura delle small town di provincia) e quelli naturali (gli alberi, la neve, i cerbiatti) che raccontano, rappresentandola, la condizione interiore della protagonista. Che è una vedova di mezza età (interpretata da Jane Wyman), bella e sensibile, madre di due figli ormai cresciuti, che si innamora di un giovane giardiniere (che ovviamente è Rock Hudson, prestante e sicuro di sé); e che per questo viene trattata come una reietta: spinta a lasciare il ragazzo, a fidanzarsi con un attempato amico del country club, costretta dai figli ipocriti a vivere sola, chiusa per l'appunto nella sua grande casa e riflessa nel televisore. Il Natale diventa l'emblema della sua prigionia, l'arroganza di un sistema che ha fede solo in sé stesso e in ciò che vede riflesso in uno specchio. Elementare, certo, ma di una precisione assoluta.
Roberto Manassero
C’è il padre di Chewbecca che guarda un video erotico-psichedelico in realtà virtuale nel mezzo del soggiorno durante la mattina del “Life Day” (che poi sarebbe Natale), il vecchio comico Harvey Korman nei panni della Chef Gormaanda che cucina il filetto di Bantha in tv, i Jefferson Starship (già Airplane) che si esibiscono sospesi nello spazio interstellare circondati da fasci di neon color fucsia e c’è Carrie Fisher/Leia Organa che canta una canzone sulle note del tema principale di Star Wars. Ma c’è anche molto altro ed è tutto talmente brutto e imbarazzante da non riuscire a crederci. Il 17 novembre 1978 la Cbs decise di mandare in onda uno speciale natalizio di 97 minuti dedicato a Guerre stellari con tutti i protagonisti del film uscito l’anno precedente. Lucas autorizzò l’operazione e lasciò fare, ma la cosa sfuggì di mano e venne fuori un disastro epocale. Definito come “le peggiori due ore di televisione della storia” negli anni è diventato ovviamente un cult. Per merito del successo del franchise, ma anche per il suo sapore kitsch, la comicità puerile e lo stile ibrido, ingenuo e pasticciato degli anni Settanta. Un parente scomodo sopravvissuto all’oblio cui produttori e attori hanno sempre cercato di condannarlo, passando clandestinamente per anni da una vhs all’altra fino all’approdo in digitale. Oggi lo si trova facilmente su Youtube e non c’è momento migliore di questo per goderselo. Magari fra un episodio di The Mandalorian e l’altro…
Lorenzo Rossi