Il Museo Nazionale del Cinema di Torino inaugura in anteprima mondiale la mostra Best Actress. Dive da Oscar. Dal 3 aprile al 31 agosto, la collezione primavera-estate 2014 apre nel segno degli abiti di cerimonia e dei costumi di scena delle 72 donne che, dal 1929 allo scorso marzo, hanno vinto il premio Oscar come miglior attrice.
Oscar è divismo, Oscar è glamour, ma soprattutto Oscar è donna: a dichiaralo è l’ideatore e curatore della mostra Stephen Tapert, colui che a quanto pare ha ricoperto per otto anni la miglior posizione lavorativa al mondo, quella di ricercatore e archivista presso l’Academy of Motion Pictures Arts and Sciences di Los Angeles.
Da Janet Gaynor (1929) a Cate Blanchett (2014), la mostra ripercorre la storia iconica delle 72 donne che hanno vinto l’Oscar per la miglior interpretazione femminile: una storia che contempla future principesse (Grace Kelly), mogli di futuri presidenti USA (Jane Wyman), pioniere dell’attivismo contro l’AIDS (Elizabeth Taylor), giovani sordomute (Marlee Matlin), futuri membri del Parlamento britannico (Glenda Jackson), regine del pacifismo aerobico (Jane Fonda) nonché fondatrici della stessa Academy (Mary Pickford).
L’allestimento della mostra scommette fin da subito su vertigine e cardiopalma siccome la prima teca espone l’abito di Valentino indossato da Lorella Cuccarini, valletta di Pippo Baudo, a Sanremo nel 1993. Cosa c’entra Sanremo con gli Oscar? C’entra eccome, siccome Julia Roberts scelse poi di indossare quello stesso abito nel 2001 quando vinse come miglior attrice per Erin Brockovich. E mentre Sanremo e gli Oscar intrecciano il loro destino, quel Valentino resiste ancora alle classifiche del tempo e viene eletto ogni volta miglior abito indossato a una cerimonia degli Oscar.
La stessa teca espone anche l’abito che la gentilissima Jodie Foster ha ritrovato nei suoi armadi e consegnato al MNC: abito che Giorgio Armani le disegnò - e che neanche Bufallo Bill avrebbe saputo cucirle addosso meglio - nel 1992, quando ritirò con prepotenza l’Oscar per l’interpretazione di Clarice Starling ne Il silenzio degli innocenti. E ancora, l’abito s-vestito di Bob Mackie che Cher scelse di indossare quando venne premiata nel 1988 nei panni di Loretta Castorini in Stregata dalla luna.
Dagli abiti da cerimonia ai costumi di scena, la mostra espone nell’Aula del Tempio della Mole Antonelliana anche alcuni capolavori originali del costume design (quello indossato da Emma Thompson in Casa Howard, da Marion Cotillard in La vie en rose, da Nicole Kidman in The Hours, da Meryl Streep in The Iron Lady, da Susan Sarandon in Dead Man Walking, da Jessica Lange in Blue Sky).
La vertiginosa rampa elicoidale del Museo del Cinema documenta poi, nel dettaglio, anno per anno, la cosiddetta Oscar race della categoria miglior attrice protagonista: foto di backstage che mostrano le attrici sui set dei film per cui avrebbero poi vinto l’Academy Award; foto di scena dei film stessi; foto di cerimonia; pagine pubblicitarie (in gergo For Your Consideration) comprate dagli studios per promuovere sulle maggiori riviste i film e le interpretazioni; locandine italiane dell’epoca con tanto di strillo sbagliato (il cartellone nostrano di Via col vento che segnalava 10 premi Oscar quando in realtà il film ne vinse 8); copioni studiati dalle attrici (di Vacanze romane con gli appunti a lato di Audrey Hepburn); schermi su cui passano sequenze di montaggio con le best female performance.
L’ascesa verso il Paradiso, sulla rampa che sale, porta infine agli inviti alla cerimonia degli Oscar e alla titanica immagine dell’ultima -finora- best actress, Cate Blanchett.
Convinto giustamente della portata non solo artistica ma soprattutto civile e culturale della storia del premio Oscar per la miglior attrice, Stephen Tapert (nella curatela con Pacini & Sillo) coglie l’occasione per definire un tracciato esemplare delle figure femminili, calate prima nel contesto storico d’appartenenza (la campagna pubblicitaria della Royal Crown Cola che celebra nel 1945 l’Oscar della testimonial Joan Crawford) e assurte poi a icona di affermazione e di riconoscimento artistico assoluto (la vittoria di Faye Dunaway, leonessa isolata e combattiva nel 1976).
«Un invito -dichiara Alberto Barbera- a riflettere sulla complessità di un fenomeno che evidenzia i profondi cambiamenti del ruolo della donna nel mondo dello spettacolo, procedendo da un’iniziale considerazione riduttiva verso una sempre maggiore consapevolezza della funzione imprescindibile del talento delle donne».
Una questione storica, culturale e civile ancora urgente, se si ripensa all’acceptance speech che Cate Blancett pronuncia proprio nell’anno di grazia 2014 (se non ora, quando?) rivendicando l’Oscar di genere: «To those in the industry who are foolishly clinging to the idea that female films, with women in the centre, are niche experiences… Well, they are not. Audiences want to see them. And in fact they earn money. The world is round, people!». E l’ovazione esplosa al Dolby Theatre su quelle parole riecheggia ora all’interno della Mole Antonelliana.
(per info: museocinema.it)