Seconda puntata di Oscar Memories dedicata alla vittoria di Art Carney (per Harry e Tonto di Mazursky) come migliore attore protagonista e al discorso di Glenda Jackson prima di nominare i candidati.
«Glenda Jackson never comes and she’s nominated every goddamn year»: l’esilarante battuta di Maggie Smith per mano di Neil Simon in California Suite (1978) descrive al meglio il «fenomeno Glenda Jackson» che dilaga nel mondo tra il 1970 e il 1976 e di cui Hollywood è complice e vittima. Nel 1971 l’Academy scopre Glenda Jackson e la premia con l’Oscar come miglior attrice protagonista per Donne in amore. Dopodiché la candida l’anno successivo come miglior attrice protagonista per Domenica, maledetta domenica. Nel 1974, per Un tocco di classe, le assegna un secondo Oscar come miglior attrice protagonista. Nel 1976 la candida nuovamente tra le migliori, per Il mistero della signora Gabler.
Candidata o vincitrice che sia, Glenda Jackson diserta sempre la cerimonia di premiazione. Eccezione fatta nel 1975, quando accetta di partecipare e consegnare l’Oscar al miglior attore protagonista dell’anno.
Introdotta dal cerimoniere dell’anno Frank Sinatra, Mrs. Jackson (futura ex attrice e deputata laburista nel Parlamento britannico) sceglie di introdurre i cinque attori candidati precisando che il premio Oscar – come recita lo statuto dell’Academy Motion Pictures Arts and Sciences che lo attribuisce – viene consegnato alla migliore interpretazione di un attore e non al miglior attore: «I am pleased to be able to reveal the name of the man who has won the Oscar for best performance by an actor. Would you please note that this is not an award for the best actor but for the best performance by an actor».
Una precisazione di diplomazia artistica, senza dubbio, che pochi secondi dopo amplifica però una deriva bizzarra. In lizza ci sono Art Carney (Art chi? per Harry e Tonto), Albert Finney (per Assassinio sull’Orient Express), Dustin Hoffman (per Lenny), Jack Nicholson (per Chinatown) e Al Pacino (per Il padrino - Parte II). Gli ultimi quattro sì, tutti attori senza bisogno di performance. Art Carney no, siccome interprete radiofonico e televisivo fin dagli anni Quaranta e ancora in cerca della performance cinematografica.
«And the winner is Art Carney»… La platea esulta, esplode sorpresa, applaude fragorosa in una standing ovation, mentre l’anziano Art Carney bacia la giovane moglie, si alza, scambia il Dorothy Chandler Pavillon per una palestra (in anticipo di quasi vent’anni su Jack Palance), sferra in aria una gamba tesa (come neanche Nino prima di tirare il calcio di rigore), avanza verso il palco spalleggiando (come poi Stallone sul ring l’anno successivo) e con l’amplificatore per non udenti ben acceso.
Glenda Jackson, nella sua unica apparizione in una cerimonia degli Oscar, si concede pochi secondi di politica per chiarire provocatoriamente ciò che l’Academy non ha mai chiarito: il fatto che essa attribuisca il premio a una performance, a un’interpretazione, a un ruolo. E non a un attore. Con i complimenti quindi ad Art Carney, interprete per Paul Mazursky di una vera e propria delizia della New Hollywood. E con buona pace di Jack Nicholson, che rimane seduto in platea, con la bocca spalancata e con indosso gli occhiali da sole. Forget it Jack, it’s Hollywood.
I vincitori e i nominati della 47a edizione dei premi Oscar, dal sito ufficiale dell'Academy
Il video della vittoria di Art Carney, dal canale ufficiale dell'Academy