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Elisa ed Alpha, due film così lontani, eppure così vicini nelle complicate e inespresse relazioni del legame di fratellanza. Elisa, dell’italiano Leonardo Di Costanzo, racconta l’interiorità tormentata di una detenuta in carcere per l’omicidio della sorella. Il film segue un movimento centripeto che va a scavare sempre più nel profondo di questa giovane donna che dice di soffrire di amnesia e di non ricordarsi nulla, per poi farci capire che invece si rammentava tutto, anche della impassibilità con cui aveva cercato di strangolare sua madre. Alpha, terzo film di Julia Ducournau, è invece segnato da un movimento centrifugo che esteriorizza tutto, immagini oniriche, flashback, corpi malati, sanguinamenti. L’Alpha del titolo è una tredicenne che ha un solo genitore, la madre, che fa il medico e cerca strenuamente di salvare il fratello tossico, riportandolo più volte alla vita con il massaggio cardiaco. Elisa uccide; la madre di Alpha resuscita. La prima elimina la sorella e ne brucia il corpo affinché non riveli ai genitori il fallimento dell’azienda di famiglia causato dalla sua sconsiderata gestione; la seconda trascura la figlia per strappare il fratello minore dalla sua spirale di autodistruzione, lo segue, se lo porta a casa, lo cura oltre ogni lecito accanimento. Come il titolo originale di un romanzo di Chuck Palahniuk (malamente tradotto in italiano Cavie), entrambe sono due haunted, perseguitate dalle proprie ossessioni, interiormente infestate dai propri fantasmi.

Ciascuna di queste storie è un tentativo di affrontare la paura. La paura di Elisa del proprio incontrollabile istinto omicida, la paura della morte che permea tutto Alpha, il terrore di lasciar andare le persone che amiamo. Palahniuk, straordinario scrittore americano di libri trasposti al cinema (Fight Club su tutti), ha spesso affrontato il tema della famiglia disfunzionale e di personaggi alle prese con droghe, malattie, perversi percorsi della mente. Secondo Palahniuk, l’orrore non riguarda i mostri. Ciò che temiamo di più non viene da fuori, ma da dentro. Non sono i fantasmi a far paura alle persone, ma le cose che hanno fatto o che potrebbero fare. Infatti, la cosa peggiore per Elisa è essere sola con i propri pensieri, senza via d’uscita. In questo carcere modello isolato nelle montagne svizzere, tra le valli ricoperte dal manto isolante della neve (così intensamente raffigurata dalla magnifica fotografia di Luca Bigazzi), il mostro per Elisa è la sua stessa mente, l’essere intrappolata dentro ai suoi ripetuti ricordi. Eccolo l’orrore del quotidiano di cui parla Palahniuk: essere bloccati in una routine senza scampo, in un ruolo non scelto che ci divora dall’interno.

Nella narrazione della Ducournau, invece, la storia non segue un percorso lineare: gioca sulla confusione tra passato e presente, fa scaturire immagini oniriche, si perde in una vertiginosa libertà creativa che ricorda gli affascinanti vaneggi lynchiani. In un’intervista rilasciata a «Paris Match» (n.3981, 21-27 agosto 2025), la regista francese spiega che in questo film ha voluto affrontare il tema della Madre, non a caso la madre di Alpha non ha un nome proprio, ma viene chiamata “Maman”. Maman è la madre di Alpha, ma anche la “madre” di suo fratello, la madre dei suoi pazienti, la madre del mondo intero. E vorrebbe salvare tutti questi corpi corrosi da un virus misterioso che pietrifica progressivamente le loro funzioni vitali, fino a trasformare i corpi in gesso che si sgretola come polvere. Anche per i suoi due film precedenti, il nome della Ducournau è stato accostato a Cronenberg, ma la regista ha sempre respinto questo paragone, una etichetta scontata in cui non si identifica. A sorpresa, nell’intervista citata, esprime come riferimento Amarcord di Fellini, che la Ducournau definisce cinema della mutazione per la capacità di far provare il più grande spettro possibile di emozioni.

Difficile dimenticare la sequenza del primo salvataggio in cui Maman pratica un massaggio cardiaco estenuante per riportare in vita il fratello, spingendo senza tregua quel petto inerme, i capelli che le ricadono arricciati sulla fronte madida di sudore per lo sforzo. In Soffocare, uno dei più bei romanzi di Palahniuk, il protagonista finge di soffocare per essere salvato. Lui vuole distinguersi dal “piccolo e chiassoso mondo che mendica attenzione dal televisore”. Nell’unico televisore acceso di Alpha, la ragazzina e lo zio guardano Le avventure del barone di Munchausen di Gilliam, una storia di salvataggi inverosimili che sembrano più racconto finzionale che realtà. Perché Palahniuk ci insegna che se qualcuno ti salva si sente forte e utile, creando una relazione basata su sofferenza e bisogno reciproco: “Ho bisogno di qualcuno che abbia bisogno di me, ecco cosa. Ho bisogno di qualcuno per cui essere indispensabile. Di una persona che si divori tutto il mio tempo libero, il mio ego, la mia attenzione. Qualcuno che dipenda da me. Una dipendenza reciproca”. Come Elisa e Maman, infestate dalle proprie dipendenze, che siano sorelle o fratelli, omicidi o salvataggi, immobili rimuginii mentali o corse precipitose, intrappolate in un ciclo compulsivo senza via d’uscita.