Nella sezione Documentari in programma al Torino Film Festival continua l'incrocio di sguardi, il ricco ventaglio di proposte, i viaggi intorno a nuovi territori da esplorare.
Chroniques equivoques del trentenne Lamine Ammar-Khoda racconta l'Algeria e il suo complesso mosaico linguistico e culturale, in occasione del 50° anniversario dell'Indipendenza. Lo fa prendendo spunto da piccoli frammenti di storie e situazioni di vita quotidiana (le massicce proteste degli studenti, i volti di anonime donne affacciate al balcone, una ragazza di colore che parla di razzismo) fino a riempire un diario fatto di pensieri e immagini.
Il graffio "amatoriale" dello sguardo che si posa sulle cose non deve però trarre in inganno: Ammar-Khoda voleva espressamente "fare un film senza fare un film" e il suo tentativo di giocare in modo intelligente e quasi godardiano con più codici espressivi, rivelandone la presenza, non è mai banale o pretestuoso (sia che si tratti di svecchiare l'iconografia degli spazi urbani con i volti di persone qualunque sovraimpressi sui muri della città, sia per le citazioni da poeti e scrittori nazionali, come Kateb Yacine, che paragonava la lingua al "bottino di guerra" dei colonizzatori). Con un approccio di studiata immediatezza e gli inevitabili riferimenti alla Battaglia di Algeri di Pontecorvo, la caméra-stylo di Ammar-Khoda compie una lucida e ironica riscrittura interna dell'immaginario dominante. Con il quale prima o poi il paese della città "bianca" dovrà fare i conti.
Claudio Casazza e Luca Ferri con Habitat (Piavoli) ci regalano un'ora in compagnia di un cineasta indipendente e sui generis, un maestro indiscusso. Con le sue opere inclassificabili e premiate ovunque (Le stagioni, Il pianeta Azzuro, Voci nel tempo), Franco Piavoli, nato a Pozzolengo (Brescia) ottant'anni fa, ha raccontato il mistero della natura e degli uomini che la abitano.
Qui vediamo la sua casa, i suoi oggetti, frammenti dei suoi primi film in bianco e nero (Ambulatorio è del 1954), le letture di una vita (Cartesio, Darwin, Lucrezio), stampe, quadri di fiori essiccati appesi un po' ovunque alle pareti, ma ascoltiamo anche riflessioni sul cinema condotte nella penombra di una stanza. Piavoli ripercorre scampoli della propria attività, si lascia andare a pensose elucubrazioni ma non vorrebbe prendersi troppo sul serio: "Di questo butterete via tutto, vero?", chiede ai suoi intervistatori.
Casazza e Ferri realizzano un ritratto affettuoso, essenziale (fin troppo?), lavorando molto sui rumori d'ambiente più che su narrazione e dialoghi. Le riprese statiche, a macchina fissa, nonché le continue rifrazioni sonore raffreddano, a tratti, la temperatura emotiva del racconto.
Che cosa succede quando si cresce in uno Stato che concepisce la guerra come condizione essenziale della propria sopravvivenza? E' il risultato di una precisa scelta politica o un'abitudine, una necessità che si tramanda ormai di padre in figlio? Treve (Tregua) dell'israeliana Carmit Harash conclude insieme a Film de guerre (2007) e Demain (2010) - entrambi presentati a Torino - una trilogia che indaga il legame strettissimo, quasi indissolubile, tra esercito (Tsahal) e vita quotidiana nell'Israele contemporaneo (in particolare si fa riferimento a "Colonna di nuvola", un'operazione di offensiva militare su Gaza decisa dal governo Netanyahu nel novembre 2012).
Treve mescola fiction e documentario, b/n e colore, sequenze fuori sincrono e inserti televisivi, rimanendo, tuttavia, dentro i dispostivi di un racconto calato nella realtà, che non smarrisce mai la sua direzione (da ricordare la sequenza che mostra la "meccanica naturalezza" con la quale due bambini in pigiama, mentre nelle vie semi deserte di Tel-Aviv risuonano le sirene di allarme, interrompono la visione dei cartoon, si alzano dal divano e si dirigono verso una sorta di rifugio domestico). La Harash radiografa con sguardo lucido e partecipe le preoccupazioni, i dubbi, le speranze di persone a lei vicine, con cui da sempre condivide tempo e affetti. Una storia di famiglia che diventa storia di tutti.