Il segreto di cyop&kaf (sigla dietro cui si cela un artista multiforme e underground) ci svela che cosa si nasconde dietro quel viavai di ragazzini che, giunta l'Epifania, si aggirano nei vicoli dei Quartieri Spagnoli di Napoli trascinandosi dietro pesanti alberi di Natale. Perlustrano negozi, case, uffici, bar: ogni occasione è buona per "accattarsi" un abete. Ci si prepara al 17 gennaio, festa di Sant'Antonio Abate. In Campania è infatti tradizione accendere grandi fuochi nelle strade, dopo una questua per raccogliere legna ma anche cianfrusaglie da bruciare. Si tratta di un modo per chiudere il ciclo invernale caratterizzato dal segno della morte e aprire la fase della rinascita, con le celebrazioni del Carnevale.
La banda di Checco Lecco ammassa gli alberi in un cantiere rimasto abbandonato dopo il terremoto del 1980 (è questo il "segreto" del titolo), in attesa di accendere il Cippo. Ma sul più bello qualcuno chiama la polizia. Tra antichi riti del fuoco e adulti assenti, dietro il folklore e la schietta rappresentazione antropologica (per 89 minuti i ragazzi si esprimono solo in dialetto), Il segreto ci racconta una curiosa "guerra dei bottoni", ma anche il degrado di una città, di un pezzo di infanzia violata e senza scuola.
Rosarno, dell'esordiente Greta De Lazzaris (nata a Marsiglia ma già dal 2002 attiva a Roma come operatore di macchina e direttore della fotografia), affronta il dramma dell'immigrazione raccontando la vita della piccola città della Piana di Gioia Tauro, dove ogni anno approdano migliaia di lavoratori stranieri, la maggior parte dall'Africa e dall'Europa dell'Est, per essere impiegati come braccianti. Pagati una miseria, dormono ammassati dentro edifici abbandonati, divisi soltanto da qualche cartone. Le cronache nazionali si sono ricordate di questo lembo d'Italia e d'Europa solo dopo i violenti scontri avvenuti nel gennaio 2010.
Risultato di una complicata storia produttiva (il materiale risale a più dieci anni fa, poi è rimasto nel cassetto, infine ripensato e rielaborato al montaggio) Rosarno è un film quasi privo di dialoghi. La De Lazzaris ("desideravo fare un film muto") preferisce ricorrere alle immagini ma soprattutto ai suoni: sono loro a evocare la confusione, il caos, il disordine in mezzo al quale uomini, donne e bambini a cui manca tutto - un materasso su cui dormire, un vestito dignitoso da indossare - cercano di sopravvivere.
Una discesa agli inferi condotta con discrezione e pudore (la macchina da presa si mantiene a distanza, rinuncia a primi piani "emotivi", non invade gli spazi dell'intimità), che merita attenzione soprattutto perché realizzata prima del clamore, prima dell'ondata emotiva (e ipocrita) che si è preoccupata soltanto di distinguere i buoni dai cattivi. La verità è che a Rosarno, dal 2003 a oggi, non è cambiato nulla: la povertà e la mancanza di futuro, per gli immigrati come per i residenti, hanno lo stesso sapore acre di un destino subìto. Il documentario di Greta De Lazzaris serve a ricordarcelo.
In quanti modi si può trascorrere una giornata nella Striscia di Gaza? Ce lo mostra Striplife, del collettivo Teleimmagini (Nicola Grignani, Alberto Mussolini, Luca Scaffidi, Valeria Testagrossa, Andre Zambelli), seguendo per ventiquattr'ore le vite di alcuni abitanti del territorio palestinese "ceduto" da Israele nel 2005 e dal 2006 governato da Hamas.
C'è l'agricoltore Jabber, la giovane reporter Noor, l'ex calciatore della nazionale Salem, il fotografo Moem, un gruppo di spericolati "parkour". Ciascuno dislocato in una zona diversa (chi a Gaza City, chi nel campo profughi di Kahn Younis), tutti sono stati "toccati" in qualche modo dalla guerra (Moem ha perso l'uso delle gambe e siede su una carrozzina, Salem non gioca più perché lo stadio è stato bombardato, altri sognano semplicemente un futuro diverso). Nei loro sguardi e nelle loro parole, mentre il canto del muezzin invade lo spazio, si riflettono le insofferenze e le frustrazioni di un'umanità costretta a vivere perennemente in uno stato d'eccezione. All'orizzonte (dello schermo e non solo) vigilano i tank israeliani. Opera a suo modo militante - il documentario è dedicato "a Vittorio" (Arrigoni) - Striplife ha il merito di comporre, con sguardo attento e scrupoloso, un interessante e corale mosaico di storie. Che abbiamo il dovere di conoscere.
San Berillo, con le sue straduzze intagliate dalla lava dell'Etna, le sue donne affacciate tra la porta e la strada, è un quartiere popolare di Catania (fino al 2011 anche e soprattutto zona a luci rosse) noto per aver subito, dall'inizio del secolo scorso, una serie di interventi di riqualificazione culminati nello “sventramento" del 1958, che ne ha alterato in modo radicale fisionomia e storia.
Aperto da una citazione del Calvino de "Le città invisibili", I fantasmi di San Berillo del catanese Edoardo Morabito ci conduce tra vicoli e rovine in compagnia di alcuni personaggi dolenti e bizzarri: Orazio, nostalgico rabdomante degli antichi afrori, quasi sempre di urina, che ristagnano negli angoli delle strade; l'anziano vedovo Vincenzo, "sepolto in casa" da scartoffie e rifiuti, accenna qualche nota di fisarmonica davanti all'altarino eretto in ricordo della moglie; la prostituta Holly, sempre più scettica sulla virilità dei maschi siciliani, rimpiange i tempi andati, quando "si lavorava bene". E' con loro che andiamo alla scoperta di storie del sottosuolo, di persone "di cui ci si innamora per la loro bellezza e per il continuo attaccamento alla vita, per la loro capacità di leggere l'umano e per la facilità con cui viene tratta in inganno con le promesse più irreali".
Catania, anzi San Berillo, fu anche il luogo di nascita della scrittrice Goliarda Sapienza (la voce off di Donatella Finocchiaro ne riecheggia con intensità alcuni brani), e di Vitaliano Brancati, che qui ambientò il suo romanzo più celebre, "Il Bell'Antonio" (citato nella trasposizione girata da Mauro Bolognini, con un pensoso Mastroianni a giro nei bassifondi, quelli dove di notte "si intrecciano i misteri alla fiamma dei lampioni").
E' proprio dal passato tragico che intende descrivere, vivace, colorato e carnale, che il film di Morabito trae la sua linfa. Ci racconta biografie dimenticate in mezzo a strade sporche e deserte, il vissuto di facce con tanto rossetto e pochi denti, si cala empaticamente, ma con la giusta enfasi, nelle viscere di una terra martoriata. Tra reportage storico, documentario sociale e accenni di recycled cinema (materiali d'archivio, cinegiornali, filmati erotici del periodo muto, citazioni letterarie), I fantasmi di San Berillo ci è parso, per densità di scrittura e qualità dello sguardo, tra le cose migliori viste sinora.
Il lago di Yukai Ebisuno e Raffaella Mantegazza si concentra sui piccoli gesti della quotidianità che legano un uomo e una donna - lui giapponese, lei italiana - ciascuno alle prese con una fase delicata della propria vita (il sopraggiungere della vecchiaia e - forse - della malattia). Vivono in una grande casa, di fronte c'è un lago dove gracidano le rane e nuotano pesci colorati. Le loro occupazioni non hanno nulla di speciale: preparano la cena, si occupano della nonna inferma, lui lavora una canna di bambù fino a ricavarne un vaso da fiori, lei gli prepara la biancheria per un breve ricovero in ospedale. Eppure, in questo prezioso e poetico documentario costato tre anni di riprese (all'inizio si trattava soltanto di un breve filmato d'occasione) si respira tutto il ritmo calmo e riposante della natura, che detta le sue leggi, scandisce il ritmo delle stagioni e permette di assaporare attimi di "verità". Tra sogno e realtà, ispirato a poemi filosofici del Giappone antico, Il lago si rivela un'opera umile, dolce come una carezza, ma di straordinario impatto. Un piccolo e minimale gioiello dai riverberi zen.
Il racconto di un anno dietro le quinte del teatro lirico più famoso del mondo, La Scala, mentre si preparano scenografie, costumi, balletti e concerti della stagione a venire, costituisce l'asse narrativo attorno al quale si sviluppa Fuoriscena, l'interessante documentario di osservazione firmato da Massimo Donati e Alessandro Leone. La macchina da presa non è mai invasiva, esplora storie private e percorsi collettivi, restituisce il clima che alunni, docenti e maestranze, uniti dalla ricerca della perfezione e del bello, respirano ogni giorno, in attesa della prova generale e del debutto. L'idea di racchiudere un anno di vita dentro l'affascinate e poco conosciuto microcosmo dell'Accademia Teatro alla Scala si rivela azzeccata e a tratti suggestiva, ma non si sfugge all'impressione che la fatica di un lungo percorso artistico così speciale, la gioia acerba dei molti giovani protagonisti seguiti nei loro piccoli eventi e situazioni quotidiane (solo abbozzate), potevano essere affrontate con maggiore forza espressiva.