The Stuart Hall Project del britannico John Akomfrah è il ritratto biografico e intellettuale di uno dei pensatori di spicco della New Left inglese. Nato nel 1932 ai Caraibi (la sua era una famiglia della middle-class giamaicana con discendenze indiane e africane), Stuart Hall è conosciuto anche per essere stato tra i fondatori dei moderni Cultural Studies e in Inghilterra è famoso per avere tenuto alla radio e in tv seguitissimi programmi di divulgazione e approfondimento.
Con il suo pensiero multidisciplinare e innovativo ha interpretato i principali rivolgimenti politici e sociali dell'ultimo mezzo secolo, dalla crisi di Suez all'invasione sovietica dell'Ungheria del 1956, dal '68 al femminismo, dal problema della decolonizzazione alla questione razziale sempre riemergente. Ogni volta insomma che la società ha compiuto un passo avanti, in mezzo a contraddizioni e abbagli ideologici, Stuart Hall, insieme a tanti altri, sulle colonne delle riviste che contavano e che bisognava leggere (una per tutte la New Left Review), ha insegnato a un'intera generazione di giovani militanti quali erano le domande da porsi.
Akomfrah scandisce il suo racconto con le note jazz di Miles Davis (Hall racconta di esserne rimasto folgorato a diciannove anni), le affianca a una quantità impressionante (forse troppa?) di materiale di repertorio in bianco e nero, rinuncia a testimonianze e punti di vista alternativi rispetto a quello del diretto interessato.
Impaginazione elegante e tecnicamente impeccabile, ma il risultato è un flusso un po' insistito di musica in sottofondo intrecciata a considerazioni sull'universo-mondo espresse da Stuart Hall in trasmissioni tv, interventi pubblici, lezioni: lo spettatore (soprattutto non inglese) ha modo di conoscere e ammirare il carisma di un intellettuale così complesso e poliedrico (discepolo del "nostro" Gramsci) ma il peso dei contenuti rischia di essere soverchiante rispetto a tutto il resto. Forse occorreva un approccio meno enciclopedico.
Claude Lanzmann con il suo Le dernier des injustes (presentato al festival di Cannes, ancora inedito in Italia) ci riporta invece dentro gli orrori della Shoah. Siamo nel 1975: su una terrazza romana - sullo sfondo i tetti rossi della capitale e l'Altare della Patria - un uomo siede su una poltrona e si prepara a un'intervista. E' Benjamin Murmelstein, l'unico membro del Consiglio degli Anziani del ghetto di Terezin a essere sopravvissuto allo sterminio.
Theresienstadt (in cèco Terezin) è passato alla storia come il ghetto "modello" del Terzo Reich, la cittadina che Hitler aveva deciso di "donare" agli ebrei. Ovviamente si trattava di una bugia. Terezin doveva servire soltanto a scopi propagandistici, a illudere il mondo. Anche lì avvennero orrori e furono organizzate deportazioni.
Murmelstein non ha mai fatto ritorno in Israele: sull'enciclopedia giudaica è scritto che abusò del suo potere. Riferendosi a lui, Gerschom Scholem ha detto che gli stessi ebrei avrebbero dovuto impiccarlo. Tuttavia, non esistono prove inconfutabili della sua collaborazione con i nazisti.
Il filmato di quell'intervista del 1975 Lanzmann non lo ha mai mostrato a nessuno. Doveva far parte del progetto "Shoah" (il capolavoro in nove ore poi realizzato nel 1985) ma il materiale gli apparve così unico e irripetibile che si ripromise di occuparsene più avanti nel tempo.
Lo ha ripreso in mano nel 2012, inserendolo in questo spiazzante documentario di quasi quattro ore. Lanzmann torna nei luoghi citati da Murmelstein, visita la sinagoga e il cimitero ebraico di Praga, inquadra resti di caserme, stazioni ferroviarie dove un tempo giungevano i convogli degli ebrei, ma soprattutto chiede a Murmelstein come facesse non a sapere di Auschwitz e delle camere a gas.
Una risposta chiara non c'è. Forse anche lui è rimasto vittima dell'organizzazione burocratica e ossessiva messa in campo dal nazismo allo scopo di rendere "efficiente" la pratica dell'uccisione sommaria. Un burattino non sappiamo quanto inerme. Certo, a differenza di altri che non ricoprivano il suo ruolo, ha potuto vestire i panni del "pragmatico Sancho Panza e anziché lottare contro i mulini a vento, ha tirato le fila di se stesso".
Sorretto da un'estetica rigorosa e disciplinata Le dernier des injustes non pronuncia assoluzioni o condanne: preferisce collocarsi in quel territorio instabile dove il tentativo di spiegare l'ombra nera del genocidio si tramuta in prezioso documento storico e lucida sfida intellettuale.