L'esordiente romana Francesca Frigo ci racconta in Sanperé - Venisse il fulmine un anno nel Centro di accoglienza di Caramagna, in Piemonte, dove risiedono il giovane ivoriano Diarra e i suoi compagni di sventura, giunti dalla Libia a bordo di un barcone. Sono in attesa di ricevere il permesso di soggiorno e la risposta alla domanda di asilo politico.
In questo limbo beckettiano dove le istituzioni hanno deciso di parcheggiarli (la scusa è la cosiddetta Emergenza Nordafrica) i confini della propria cultura e identità sono come annullati. Ci si aggrappa a un flusso continuo di parole: si scherza chiacchierando di sesso e di donne italiane, si progetta di andare in Olanda perché, gira voce, "lì si trova lavoro in due ore", ma si discute anche di post-colonialismo e globalizzazione, filo rosso di molti lavori di questa edizione del festival ("l'Africa è come una damigiana piena d'acqua" dice uno dei rifugiati, "ben chiusa dai francesi, quando hanno sete, la stappano").
I piani sequenza della Frigo, spesso scanditi dai lunghi dialoghi di Diarra e dei suoi amici, rendono bene l'idea di una immobilità fisica e psicologica via via sempre più insopportabile. Nel febbraio 2013 l'Emergenza Nordafrica termina: agli ospiti del Centro accoglienza di Caramagna vengono consegnati un titolo di viaggio e 500€. La macchina da presa li inquadra in un piano lungo, sui binari della stazione di Sommariva Bosco, pronti a salire su un treno. Destinazione? Le più varie. I titoli di coda ci informano che sono tornati quasi tutti. Adesso fanno i braccianti, vivono in baraccapoli chiamate "Guantanamo". Anche l'Italia, come l'Africa, è una damigiana ben chiusa.
Come accade in Les derner des junstes di Lanzmann (presentato nella sezione Documenti proprio al TFF31) anche il documentario Wolf del trentacinquenne romano Claudio Giovannesi (il regista di Alì ha gli occhi azzurri) illumina una particolare zona d'ombra della Shoah: quella che riguarda Benjamin Murmelstein, rabbino capo di Vienna e unico membro del Consiglio degli Anziani - l'organo a cui era affidata l'amministrazione del "ghetto modello" di Terezin sulla base delle direttive naziste - a essere sopravvissuto allo sterminio.
Wolf è il nome del figlio di Murmelstein e, attraverso un'intervista-dialogo condotta con lo psicanalista David Meghnagi, il film ricostruisce il complicato, ambiguo, irrisolto rapporto di un figlio con la memoria di un padre ingombrante: dall'infanzia vissuta nel ghetto di Terezin alla difficile elaborazione di una tragedia che ha addossato al padre Benjamin (seppure per responsabilità indiretta) migliaia di morti. La conseguenza è stato un lungo ostracismo da parte della comunità ebraica di Roma – città dove la famiglia ha vissuto in esilio dal dopoguerra – che dura tuttora. Nel 1989, alla morte di Benjamin Murmelstein, fu concesso il funerale ma non la sepoltura nella tomba della moglie. Da allora, dopo quel “gesto di disumanità”, il figlio non è mai più tornato al cimitero. Il film di Giovannesi non cerca di dare risposte, pone anzi delle domande: può un essere umano sopravvivere alla memoria e alle colpe del proprio padre? In che modo la Storia agisce e trasforma la vita individuale?
Erto è un paese delle Alpi friulane. Nella sua valle viene costruita alla fine degli anni Cinquanta la diga del Vajont. Il 9 ottobre del 1963 un versante del monte Toc precipita nel lago artificiale della diga. L'ondata d'acqua che si scatena è inarrestabile e spaventosa. Muoiono sotto il fango e i detriti 1918 persone. Il paese di Langarone è raso al suolo. Erto in parte.
La veneziana Penelope Bortoluzzi (autrice di corti e lungometraggi, attiva tra l'Italia e la Francia) in La passione di Erto ci racconta questo luogo in una prospettiva inconsueta, ossia tra i due eventi che ne caratterizzano la storia: un rito annuale atavico – da tre secoli i cittadini realizzano una processione lungo vicoli e stradine mettendo in scena la “passione di Cristo" ("noi lo chiamiamo il tormento" precisa un uomo anziano con la barba bianca) e la catastrofe, unica, senza precedenti. A distanza di mezzo secolo dai fatti, tra immagini d'archivio, testimonianze d'epoca e di oggi, il film della Bortoluzzi, tenendo insieme reale e immaginario, ci racconta la furia distruttrice della natura e il pudico riscatto degli umili.
Lina ha settant'anni ed è contadina da sempre. Ogni mattina parte da San Mauro Torinese, "il paese delle fragole", per raggiungere il mercato all'aperto più grande d'Europa, quello di Porta Palazzo. Senza figli, Lina vive con il marito Gianni e cinque cani scondinzolanti. Lina non smetterebbe mai di raccogliere frutta e ortaggi, china sui campi. Ha imparato fin da piccola a fare così. Un giorno però si presenta al mercato Hassan, un giovane immigrato marocchino, che chiede di lavorare. Per Lina e il suo mondo sarà l’inizio di un cambiamento.
Difficile classificare un documentario come El lugar de las fresas della spagnola Maite Vitoria Daneris: è la straordinaria e divertente cronaca di un incontro (una notte del 2005, appena sbarcata a Torino, la giovane Maite si mise a realizzare alcune riprese nel mercato ancora semideserto di Porta Palazzo e Lina fu la prima persona a entrare nel suo "campo visivo" e da quel giorno nacque un’amicizia), il ritratto di una forza della natura, Lina, e di un mondo contadino dove contano solo il sudore della fronte e la messa alla domenica. Un commovente apologo sulla forza dei legami e dei sentimenti che, oltre le differenze di cultura, di lingua, di tradizioni, tengono unite le persone.