Quando ho visto "Dead Slow Ahead" ho subito pensato fosse un film politico.
Per me in tutti i gesti e in tutti gli atteggiamenti c'è una questione politica. Diventa interessante quando però questo non viene fissato in maniera univoca, o unidirezionale, perché credo si rischi di semplificare troppo la questione, al punto di dire "questo è bene e questo è male", "fare della morale". Non amo molto la morale al cinema. Molti dei film che consideriamo politici, perché lo sono in una maniera assai chiara fin dall'inizio, presentano le cose in un certo modo e non lasciano molto spazio a una "torsione", a qualcosa di differente, a un dialogo.
Nel mio film, e nel cinema che in generale mi interessa, si tratta di un gioco di segni: ci sono dei segni concreti che dicono delle cose; ci sono dei momenti in cui sei in una specie di percorso, come spettatore, ricevi molte cose, voli un po' con l'immaginazione e a volte non sai bene cosa voglia dire quel che ti arriva; in certi momenti ti arrivano dei segni molto concreti che ti dicono che hai preso la direzione giusta. Sono come piccole pietre bianche, come trovarsi di fronte a una strada di piccole pietre bianche. Lasci molto spazio tra queste pietre, ma a un certo punto ne trovi una che ti dice: "sì, il film parla di questo". E lì credo che ci sia qualcosa che si cristallizza, un'emozione, che passi qualcosa tra quello che voglio dire e quello che tu senti come spettatore. Ma molto arriva anche da chi guarda, quello che ha sentito, che ha pensato.
La cosa complessa è il taglio di questa pietra, come deve essere fatta, quanto le pietre devono essere separate le une dalle altre. Ci sono spettatori molto più portati di altri all'immaginazione, che hanno atteggiamenti diversi rispetto alla proiezione. Ovviamente non tutti hanno la stessa pazienza, la medesima sensibilità, gli stessi riferimenti, la stessa preparazione. Dunque per decidere qual è un buon taglio per queste pietre e a che distanza metterle, non posso che basarmi su me stesso. O meglio, ci sono anche registi che forse riflettono su una specie di spettatore ideale, o generico, o su formule che funzionano. Magari può essere interessante, ci sono registi che hanno fatto dei film molto belli così. Ma non è la mia "cosa". Quando mi trovo di fronte a qualcosa di molto univoco, e piatto, mi innervosisco immediatamente, perché mi sento manipolato e, a ogni modo, non mi interessa.
Allora sì, il mio film è politico, ma nel modo in cui io credo debba esserlo, rispettando lo spettatore, la sua intelligenza, il suo spazio per sognare, per viaggiare, e rispettando me stesso. Ci sono dei momenti in cui hai un po' più di respiro, in cui ti senti più dentro alla cosa, e altri momenti in cui sei più distante. Credo sia così anche nel mio film. Io magari non sono molto oggettivo perché l'ho visto un sacco di volte, comunque immagino che l'emozione arrivi a volte molto rapidamente, e in momenti differenti per ognuno, perché penso ci sia molto spazio. Amo i film che lasciano molto spazio, che sono oggetti vivi, che non ti dicono quando commuoverti o quando ridere, che ti lasciano un po' di libertà. Perché in fondo deve essere un'esperienza.
Durante il Q&A che è seguito alla proiezione del film hai detto che in base al Paese in cui hai mostrato "Dead Slow Ahead" hai avuto reazioni differenti. Io per esempio ho trovato divertente la scritta che campeggia sulla nave "No Smoking. Safety First": per gente in stato pressoché comatoso, mi sono detta, non credo che una sigaretta possa peggiorare la situazione. Hai girato quella scena con intenzione ironica?
In realtà è divertente perché io non ci avevo proprio pensato. No, non avevo intenzioni ironiche. Volevo mostrare questa gente che sale e scende dalla nave e tu non hai davvero un'idea di quanta ne resti a bordo alla fine. Il cargo è effettivamente enorme.Volevo che quella scena mostrasse la macchina (quella specie di radar che gira) che incombe sul resto, come a dire: è lei che ha vinto la battaglia, è talmente enorme, talmente aberrante. E al tempo stesso hai l'impressione che sia la macchina a guardare gli uomini, una specie di totem, che controlla dall'alto. Quella scritta era là, per puro caso, ed è divertente che tu dica questo perché ho un amico che è venuto a vedere il film in fase di montaggio e lui mi ha detto di toglierla, di lasciare la parete bianca, perché costringeva lo spettatore a leggere quello che c'era scritto, distraeva la sua attenzione. Il momento era un po' particolare, come arrivare allo Zenit, una specie di meditazione, che ti lascia anche un po' sbigottito, hai l'impressione di distaccarti un po' dalla realtà. Ho cercato di togliere la scritta, seguendo il consiglio del mio amico, ma era troppo complicato, e dunque l'ho lasciata. D'altra parte quando hai creato una specie di terreno con dei segni, poi è giusto che lo spettatore abbia la sua libertà di vedere determinate cose o altre. C'è sempre qualcosa che sfugge al controllo. C'è uno spazio tra ciò che vuoi dire, che prepari, e ciò che arriva per caso, l'imprevisto, e quindi le reazioni che di conseguenza si possono avere.
Mi sono chiesta, vedendo il tuo film, se tu conoscessi "Leviathan" (2012) di Lucien Castaing-Taylor e Véréna Paravel.
Sì, l'ho visto, ma l'ho visto molto più tardi rispetto a quando è uscito. Devo dire che mi ha messo un po' a disagio, perché io ero a Locarno, per un film in cui avevo lavorato come direttore della fotografia (Arraianos di Eloy Enciso, 2012), e tutti quelli che uscivano dalla proiezione di Leviathan dicevano che era un film magnifico, folle, bizzarro. Io ero molto frustrato perché non avevo potuto vederlo e sapevo che tre mesi più tardi mi sarei imbarcato sulla nave. Tutti mi dicevano: "Leviathan è un film straordinario, ora fai anche tu un film su una nave, forse dovresti lasciar perdere". E io dicevo: "ma come, sto per partire, ho già i soldi per la produzione". Per cui sì, è stato un po' frustrante. Poi, appunto, l'ho visto molto più tardi e in effetti è davvero interessante, la prima parte è straordinaria. Però per lungo tempo ho pensato che sarebbe stato meglio che quel film non esistesse! (ride)
La cosa divertente è che i due film, che penso siano totalmente differenti, hanno però un punto in comune, il desiderio di essere filmati in prima persona. Ho letto delle cose su Leviathan in cui si diceva che mancava un punto di vista, mentre secondo me ce l'ha ed è molto chiaro ed evidente. Al di là di questo, in entrambi i casi io sentivo molto forte la necessità che il film passasse allo spettatore come se fosse lui a fare un'esperienza in prima persona, un'esperienza di immersione. Mi sono chiesto se magari non fosse perché io e loro avevamo esperienze e riferimenti simili, anche per una questione generazionale, come quella di giocare da bambini coi videogiochi, in cui sei un po' dentro alla cosa, fai un'esperienza in prima persona. Ciò che più mi ha interessato è la volontà di portare il film ancor più sulla prima persona. Non c'è un attore che guarda le cose, nel quale puoi identificarti, sei tu che vivi le cose come se ci fossi dentro.
Credo il tuo film sia ancor più radicale di "Leviathan": là gli uomini erano posti allo stesso livello dei pesci e degli uccelli, nel tuo film l'uomo è posto al livello della macchina. Eppure ci sono dei piccoli gesti di umanità tra di loro, che rompono forse questo schema di progressiva trasformazione dell'uomo in macchina.
Ovvio che il rapporto tra uomo e macchina mi interessa. La fusione tra l'uomo e la macchina, una nuova biologia che si sta creando. Penso siano temi molto affascinanti e allucinanti anche. Però io non volevo tanto parlare della macchina in sé quanto del fatto che è l'uomo che ha creato la macchina. Là fuori la natura è estremamente bella, ma è inaccessibile, c'è il mare che è straordinario ma al tempo stesso ti mette angoscia. L'uomo ha iniziato a costruire macchine e non può fare a meno di continuare a costruirle e trasformare il mondo, renderlo accessibile a se stesso. Ma non voglio fare un semplice discorso ecologista. Sì, è vero che l'uomo ha trasformato il mondo, ma aveva anche bisogno di vivere e di adattarlo. Perché l'uomo dovrebbe privarsi di vivere tranquillamente? E però non se ne esce, perché più l'uomo trasforma il mondo e più questo gli si ritorce contro. Tutto ciò è molto bello ma mette molta angoscia. Non volevo essere manicheo o moralista. Può essere che per ottenere questo l'uomo si stia un po' disumanizzando. E non so nemmeno se lo è più o meno rispetto a prima. Ma credo anche che, nonostante tutto, siamo in un mondo, in questo momento, con una qualità di vita migliore, e magari anche più giusto, di secoli fa. Detto ciò, l'idea di questa macchina, di questo motore rosso che gira continuamente, mi faceva venire in mente una testa che non smette mai di pensare e che non si può fermare. Che inventa di continuo cose che ci possano far stare meglio, senza mai arrestarsi. Un paradosso irrisolvibile.
Tu pensi che sia un po’ il mito di Prometeo?
Mah, il mito è qualcosa che va sempre bene per parlare di qualcosa di fondamentale. Sì, può essere. D’altra parte abbiamo ucciso Dio, non abbiamo più bisogno di lui per conoscere. E così la nostra capacità di meravigliarci, di emozionarci. Diciamo che non siamo più capaci di meravigliarci, di sorprenderci. Tutto è molto fragile e l’uomo è diventato molto arrogante.
Ieri, nel Q&A, hai detto che ti sei posto delle domande su queste navi che vedevi partire e di cui non sapevi nulla e ora mi dici che, per esempio, ti sei sempre interessato alle macchine. Dunque come nasce un progetto come questo?
Tutta questa storia delle macchine e delle ricerche che ho fatto, in realtà, sono arrivate più tardi. Io ho fatto degli studi per diventare ingegnere, uso molto le macchine e utilizzo continuamente il computer. Ma detesto anche tutto questo. Nel film adoro e detesto, allo stesso tempo, quello che accade. Certo, sono affascinato dalla macchina, per come funziona, per i suoni che produce. La trovo bella. Avevo già questo amore-odio per la macchina da tempo. Inizialmente pensavo che quella gente partisse su una nave per la passione per il mare. E invece era un adattarsi. Pensavo che la mia vita, in fondo, non era molto diversa da quella di questi uomini. Anch’io per quindici anni ero spesso fuori casa per fare dei film. Per due anni sono stato sempre fuori casa. Ho anche sofferto per questo. Avevo voglia di scoprire come facevano loro, com’era la loro vita, tutto il tempo lontani. Per una questione di soldi, di passione, ma anche di adattamento. Ovviamente non sono persone interessate a fare una vita normale, a restare in città. Questo è affascinante ma è anche terribile. Trovavo molti punti in comune, e forse questo film è un tentativo si rispondere a delle domande che mi riguardano. Come sono loro, come sono io rispetto a loro. Come si sostengono in una vita del genere. Come riesco a sopportarlo io. Per me il cinema e la vita sono sempre mischiati, cercavo qualcosa di me lì, tra di loro. È un dialogo continuo. È per questo che dico, parla molto di loro, ma parla anche molto di me. Le conversazioni al telefono, sono conversazioni che ho fatto anche io. E l’angoscia che mostro nel film è la mia angoscia. Magari il prossimo film sarà più luminoso, ma questo è così anche in rapporto a come io mi sentivo in quel momento.
D’altra parte si vede nel film che il tuo sguardo è molto umano, anche tenero. E soprattutto c’è un grande rispetto per quello che filmi.
Sono contento tu dica questo. Ci sono alcuni che hanno visto il film e dicono che io ho filmato in maniera fredda, che non amo le persone che riprendo. Mentre, in realtà, anche quando filmo le macchine, sto pensando alle persone. Anche se posso filmare in maniera più o meno formale, magari all’inizio, tutto quello che mi interessa, in realtà, sono le persone. La macchina è comunque sempre l’uomo che l’ha creata. L’uomo è sempre là. Potrei fare un altro film solamente sulla parte del karaoke: ho filmato quarantacinque ore. Non cantano sempre, parlano, anche, fanno delle cose. E, tanto per dire, ho pianto molto mentre li filmavo. Sì, mi hanno molto commosso.