Tutta la comunicazione è pubblicità, se non è amore. (enrico ghezzi)
È sempre più difficile, oggi, imbattersi in film che siano politici senza essere "militanti", che facciano resistenza in maniera poetica, coraggiosamente altri, rivendicando la propria alterità attraverso un'inquadratura, un movimento di macchina.
La maggior parte delle opere cosiddette "impegnate" risultano spesso deludenti: giocando in maniera dichiarata tra due polarità (bene-male), ricadono facilmente nei medesimi luoghi comuni che dovrebbero attaccare e smontare, svelando ben presto il loro lato reazionario e ricattatorio. Di fronte a pellicole di questo tipo lo spettatore si sente rassicurato nelle proprie certezze, osserva sullo schermo, come in un gioco di specchi, una rappresentazione di se stesso più schematica e semplificata, che lo mette in salvo dal dubbio e avvalora, quasi fosse una bonaria pacca sulla spalla, la bontà delle sue azioni e del suo pensiero.
Per contro un film come Faire la parole, e più in generale tutto il cinema di Eugène Green, si pone come un unicum, un'opera interlocutoria con la quale confrontarsi in un dialogo aperto: è chiaramente un film politico, è chiaramente un film di resistenza.
I ventenni che riflettono, con grande dolcezza, sulla loro appartenenza al popolo basco, ma soprattutto sulla loro lingua, su ciò che significa sentire che una lingua "fa" un mondo e che in base alla lingua parlata cambia la visione della realtà, perché raccontata in maniera diversa - ogni lingua ha una struttura ben precisa, attraverso la quale il mondo viene avvicinato e compreso - sono l'esempio di una via possibile al dissenso nei confronti di un sistema che tutto livella e appiattisce. La lingua basca è la più antica d'Europa, è estremamente complessa e, per motivi storico-politici, quasi sempre ostracizzata: è una lingua che sta pian piano scomparendo. Mantenere presso di sé un idioma, renderlo vivo attraverso la parola e le sue combinazioni, è innanzi tutto un atto di opposizione al processo di progressivo impoverimento del linguaggio.
D'altra parte tutta la filmografia di Green dimostra come il linguaggio (cinematografico e parlato/scritto) possa essere uno strumento (e un dono) attraverso il quale creare un tempo e uno spazio a cui non solo il regista, ma anche lo spettatore, abbiano accesso, un luogo di libertà.
Tra i pochi autori sinceramente radicali e coerenti - il rifiuto del proprio Paese d'origine, la Barbarie (come lui chiama gli Stati Uniti), e di tutto ciò che viene prodotto in quel posto, compreso il sistema di comunicazione - Eugène Green dimostra, film dopo film, un grande rispetto nei confronti dello spettatore, della sua sensibilità, evitando di indirizzarlo verso una lettura univoca dell'opera, lasciandogli la possibilità di raggiungere con un proprio personale cammino una comprensione che superi quella puramente intellettuale.
L'empatia che si crea tra chi guarda e i suoi personaggi (o persone, come nel caso di Faire la parole) non è mai ottenuta attraverso l'utilizzo di musiche che accompagnano i sentimenti dell'azione, da una recitazione naturalistica, da movimenti di macchina coercitivi. La bellezza delle immagini, la cura del linguaggio, la scelta di una forma che distanzi lo spettatore da un'immersione "da basso ventre" e ne permetta invece una più profonda, crea una tensione che porta al raggiungimento, sempre, di un momento di grazia, in cui qualcosa viene svelato, ma rimane misterioso all'intelletto.
La commozione provata diventa la chiave d'accesso alla parte di ognuno di noi che normalmente rimane nascosta e, il più delle volte, addirittura sconosciuta. Per questo si tratta di una resistenza poetica, quella di Green, che viene agita concretamente, ma che ha origini assai più intime, spirituali, che hanno a che fare col sacro. Il canto intonato da alcuni dei giovani di Faire la parole, i loro sguardi puliti e entusiasti, il loro sentirsi presi da qualcosa, sono la testimonianza non solo di una presa di coscienza, ma di una vera e propria epifania.
La forza di questi ragazzi sta nella libertà cercata e trovata in una lingua, la consapevolezza che nel suono di quell'idioma loro esistono, il mondo esiste, come nello splendido finale di Le Pont des Arts (2004), in cui Sarah, che si è data la morte, gettandosi nella Senna, incontra finalmente Pascal, messo in salvo dal suo canto mentre stava a sua volta per togliersi la vita. I due possono finalmente amarsi in un tempo e uno spazio che è solo loro. La musica "non è niente di reale" dice Pascal "nasce nel silenzio, muore nel silenzio". "Tra questi due silenzi ci siamo conosciuti, ci siamo amati. Questa è la nostra realtà" risponde Sarah "(...) noi siamo un corpo unico nella luce".