Forse Clint Eastwood sta cercando di chiarire la propria identità d’autore; però a sé stesso, prima che agli spettatori. E lo sta facendo ora, durante questo nuovo mondo, in questa realtà, con più forza e determinazione – se possibile – che in passato. Non bada all’uniformità del pensiero dominante dell’establishment dello spettacolo statunitense, non sceglie il conformismo ideologico, e insegue prima di tutto, prima di tutti, un sé mai veramente piegato né messo in dubbio eppure oggi, suo malgrado, probabilmente travolto da eventi e cose più grandi di lui. Un sé, insomma, costretto a fare i conti ancora una volta con la Storia, tuttavia con una Storia che corre sempre più veloce, e che si trasforma, e trasforma le sue dinamiche e i suoi mostri.
Facile pensare a Eastwood come a un monolito “classico” e immobile, mentre tutto intorno ruota e procede, cambia di abito e di importanza, si rilancia e guarda altrove: ma è un luogo comune, e non serve più a niente. E poi, a conti fatti, non è vero, perché gli ultimi film di Clint Eastwood si muovono, frugano, inquisiscono, osservano. Senza dubbio si tratta di un cinema fondato come sempre su idee perentorie e certe, ma quali registi così longevi e così produttivi non le hanno? Quel che mi sembra veramente interessante è che, almeno da Gran Torino (2008) in poi, lo sguardo eastwoodiano si sia spostato in prevalenza su un tentativo di ritrovare criticamente l’io autoriale, piuttosto che ambire a una critica rappresentazione autoriale del mondo.
Non è meno importante, specialmente se consideriamo quanto Eastwood sia diventato nel tempo un concetto e una prospettiva, tanto per i fan, quanto per i detrattori. Ma lui pare fregarsene, e gira film che braccano da vicino quello stesso concetto e quella stessa prospettiva. Invictus - L’invincibile (2009) e Jersey Boys (2014) erano al riguardo limpidi e trasparenti, le avventure di un regista dato a tal punto per scontato da risultare invisibile davanti al proprio specchio. Come se anni e anni di fascicoli critici l’avessero vampirizzato.
E dunque anche Sully è limpido e trasparente, nondimeno capace di una sintesi inedita. Non c’è un’immagine di più. Ed è evidente quanto autore e protagonista siano speculari, entrambi alla disperata ricognizione di un’identità non perduta ma improvvisamente debole, a dispetto di celebrazioni e onorificenze, eroismi e santismi, voti e targhe. Anche un evento imprevisto e straordinario è la riproduzione (benché in scala ridotta) del mondo, e Eastwood è lì dentro che verifica il proprio statuto di icona. Non ci fa a pugni, però ne rivendica quantomeno la specificità. Può farlo, mentre le cose crollano, gli ideali spariscono, i valori prendono una piega sgradevole. In un film dove la verità giunge attraverso un incubo o un ricordo ad occhi aperti (e bisognerebbe imparare anche da qui, dalla grammatica di una visione e di un flashback: l’abc cinematografico, ma a saperlo applicare è un altro paio di maniche), e dove il giudizio è prepotentemente, assurdamente e caparbiamente interrogato, Clint Eastwood e Chesley Sullenberger detto Sully hanno un solo desiderio, riacquistare il diritto ad essere uomini.
«You are looking for human error. Then make it human». Se vogliamo parlare, se devono esserci un dialogo e un contraddittorio, che sia allora uno scambio fra identità e intelletto. Non è un caso che l’ultima mezz’ora di Sully si affidi al confronto diretto fra persona e computer, raziocinio e invenzione, mente e artificio: come in uno dei film più belli dell’anno, Deadweight di Axel Koenzen (presentato anche questo al Torino Film Festival 34, ndr), la simulazione è usata quale punto di vista per torchiare la ragione sociale a favore della logica umana. È l’individuo che ha la meglio, ma non quello contraffatto: Eastwood e Sully sono infine salvi, dopo aver recuperato – fra macerie e imitazioni, pettegolezzi e religioni, dicerie e idolatria – l’immagine di sé.
Rintracciare dunque un’autoconsapevolezza solo temporaneamente annebbiata e intorpidita: questo cinema eastwoodiano, schietto e aperto, non fa che proseguire sulle orme lasciate da Coraggio… fatti ammazzare (1983), Il cavaliere pallido (1985) e Gunny (1986), che già all’epoca sottoponevano a indagine ruoli e archetipi, ispessendoli e flettendoli. Un cinema in prima persona, perché Eastwood crede di dover riprendersi l’identikit predisposto da altri in più di quarant’anni di film e di critica. Ed è giusto così.