Le testimonianze di chi ha conosciuto Alberto Giacometti (1901-1966) ricordano una persona riservata, con cui non era né facile né immediato entrare in sintonia, severo innanzitutto con sé stesso; qualcuno parla addirittura una sorta di mistico laico, la cui principale preoccupazione era la disciplina del lavoro, il giorno per disegnare e scolpire, la notte per dipingere, con poche eccezioni. Peraltro, tanto lui quanto suo fratello Diego, trasferiti a Parigi, a Montparnasse, da giovani, parlavano soprattutto francese, con una forte marca italiana, e, quando necessario, un variante grigionese di italiano, farcita di calchi da quella che era diventata la loro lingua principale, e non è difficile trovare in rete di scampoli di registrazioni. In ogni modo, poco dopo l'inizio di Final Portrait tutti cominciano a parlare inglese, soprattutto Giacometti stesso, interpretato da Geoffrey Rush con una certa, superficiale, somiglianza, e con una buona dose di gigioneria, mentre il fratello è Tony Shalhoub, la cui prima apparizione in scena è accompagnata da qualche farfugliamento in spanglish/italiano.
Ma sospendiamola, quest'incredulità (rimando a chi scriverà sul bel film di Peck sul giovane Marx le considerazioni su come si può lavorare, e bene, sul plurilinguismo): in fondo, il principale interlocutore dell'artista, nel film è un americano. James Lord era uno dei tanti americani a Parigi nel dopoguerra, ma non uno qualunque. Lui, che era stato militare in Europa durante la Seconda Guerra Mondiale, frequentava regolarmente il milieu artistico parigino, come cronista e critico, e aveva conosciuto Giacometti nel 1952: non gli era andata tanto diversamente che ad altri, tanto che, pur vedendosi spesso, non riusciva definirsi amico dell'artista (mentre fu intimo, almeno fino al 1956, di Picasso) "an acquaintance, though, is all it ever was. To suggest that we became close friends would be presumptuous and inaccurate. I was a witness of certain aspects of Alberto's life", una conoscenza, una testimonianza, che vide come primo esito, nel 1965, la pubblicazione di A Giacometti Portrait, con tutta l'ambigua complessità su chi stia ritraendo chi, l'artista o il critico. Il ritratto di Lord che Giacometti si impegna a fare "in poche ore", nel settembre del 1964, e che invece impegnerà i due per 18 giorni, è tornato in auge abbastanza di recente, essendo stato venduto in asta da Christie's a New York per una cifra importante (20 milioni di dollari, perfino un po' meno di quello che ci si aspettava).
Nelle pause, durante le sedute, Lord prendeva nota degli sporadici scambi verbali - non si parlava mai mentre l'artista era al lavoro - e alla fine di ogni giornata scattava una foto dello stato del dipinto. Disciplina documentaria, quindi, anche da parte del critico-cronista. Ma non c'è granché di questo rigore, di quello che dovette essere un patto consensuale tra l'artista e il critico, nel film di Tucci; il narratore, a cui Tucci assegna lo sguardo quasi impaurito di Armie Hammer, pare voler ostentare di non capire cosa sta succedendo, sembra focalizzarsi più sulle bizzarre abitudini del Maestro, che non su quel farsi e disfarsi della materia sulla tela, quello stratificarsi di strati in un progressivo mettersi a fuoco dell'essenziale, della presenza di una verità altra, sotto la pelle della pittura. Che, d'altra parte, è ricostruita in CGI, probabilmente proprio a partire dalle foto dello stesso Lord: ma non è il Mystère Picasso né El sol del membrillo, né forse pretende di esserlo. È un film che ha i tempi e le forme del teatro, e però forse ricordare che tra i visitatori dell'atelier di Giacometti, proprio in quei mesi, passava anche Samuel Beckett, non basta a dare una dimensione beckettiana a una commedia dove l'attesa, la ricerca, del quid entra presto un loop francamente noioso, un'illustrazione senza tensione, se non quella, grottesca, tra le donne dell'artista, affidata alla performance nevrotica di Sylvie Testud nei panni della moglie Annette, e all'indicibile caricatura che Clèmence Poesy riesce a consegnare, nei panni della modella preferita, Caroline. Il giorno, la notte.