Stavolta non cantano. Stavolta non sono prelevati dal pantheon degli attori francesi, ma sono per lo più esordienti giovani e giovanissimi; eppure incarnano, in luoghi liminali della civiltà contemporanea (la banlieue, i cavalcavia dell’autostrada, l’incolto alle spalle dei centri commerciali) gli dei e i semidei che popolano le Metamorfosi di Ovidio: sono gli attori scelti da Christophe Honoré per il suo Métamorphoses, presentato alle Giornate degli Autori, una versione in panni contemporanei di uno dei capolavori della letteratura augustea.
All’origine di questo progetto Honoré, che è anche scrittore di romanzi per ragazzi, pone il ricordo di una passione infantile per il testo di Ovidio, che il fratello gli leggeva, in segreto, alla luce di una pila, e riflette sulla sopravvivenza di quell’antichità mitica nella nostra quotidianità.
Però è anche vero che la selezione degli episodi, una manciata di miti contro i 250 e passa dei 15 libri ovidiani, sembra ripercorrere le strade extra-letterarie che hanno garantito la sopravvivenza di quei racconti nel corso dei secoli, soprattutto le tracce di una tradizione iconografica. È inutile ricordare come le Metamorfosi siano state già nel Medioevo, ma più marcatamente nel ’500 e nel ’600, fonte di ispirazione esplicita per le altre arti, soprattutto per la pittura (ma anche la musica), da Tiziano a Rembrandt, ai classicisti francesi, fino ai simbolisti, occasione per esibire il nudo, per riflettere sul corpo, per esaltarlo o negarlo.
Le opzioni visive adottate da Honoré suonano come una scelta di campo precisa, in questo senso: quasi un Poussin postmoderno, preferisce costruire nel dettaglio le situazioni, mostrare il sesso e raffreddare la sensualità, senza lasciare nulla al caso, alla natura, benché il film sia, per la maggior parte, en plein air.
Dopo un prologo con Ermafrodito, il regista sceglie un personaggio trasversale, Europa (che a ben vedere è l’unica a non mutare mai di forma) e articola il proprio racconto intorno al rapporto della ragazza (immaginata come una liceale) con Giove, che la rapisce a bordo di un TIR, con Bacco che la inizia ai propri riti, con un Orfeo fricchettone che la introduce ai misteri della poesia e della metempsicosi. E poi, ogni occasione è buona per introdurre digressioni: le perfidie di Giunone ai danni di Io, la storia di Filemone e Bauci, quella di Pan e Siringa, fino a quella, tutta coreografata, di Atalanta e Ippomene, che finiscono mutati in leoni dentro una moschea.
Ma, alla fine, si torna sempre alla nostra liceale, Europa. Non è difficile vedere, in questo esile schidione di un racconto centrifugo e imperfetto, una dichiarazione esplicita a favore della libertà dell’artista, e della creazione artistica: Europa (ma forse, allegoricamente, ci andrebbe l’articolo determinativo) sedotta dal più potente degli dei, finisce in fondo per avvicinare e seguire il poeta, l’artista-sciamano.