«La memoria è del tempo e in esso tutte le cose vengono all’essere e si corrompono».
Con queste parole Aristotele definisce il sostare del ricordo nelle pieghe dell’esistenza, e con il lungo discorso A servizio del popolo di Mao Zedong, stoicamente citato a memoria, si apre Tharlo, film tibetano del regista Pema Tseden presentato a Venezia nella sezione Orizzonti.
La pellicola racconta la vita di un povero pecoraio, Tharlo, detto Treccia per via della lunghissima coda, dotato di una memoria incredibile ma che non è in grado di ricordare il proprio nome e la propria identità. Il regista segue l’arrivo in città del protagonista, interpretato dal poeta e musicista Shidè Nyima, intenzionato a registrarsi all’anagrafe e la successiva, benché illusoria, relazione d’amore con una parrucchiera del posto, Yangtso (Yangshik Tso), attraverso una lunghissima serie di piani fissi e un b/n poetico, melanconico, che ricorda il nichilismo contemplativo dell’ungherese Belà Tarr e i sovrumani silenzi di Šarūnas Bartas.
Ogni movimento di macchina è rigorosamente bandito e Tseden decide di lavorare per sottrazione, sfrondando a tal punto l’immagine cinematografica da renderla un materiale alieno alla rappresentazione stessa, una sorta di liquido amniotico nel quale lo spettatore deve galleggiare e che (pre)determina la morte di un cinema, quello hollywoodiano, che da troppi anni si erge a demiurgo del rappresentabile, in un infinito esercizio di finzione che trasforma la realtà in mostri fantasiosi.
In questa feconda poetica dell’essenziale e nel faustiano tentativo di catturare la memoria si muove il regista tibetano, che decide di precedere l’entrata in scena dei personaggi, sempre decentrati e posti ai margine dello spazio cinematografico, attraverso ferme e lunghe inquadrature paesaggistiche dal forte sapore metaforico, che continuano anche quando i personaggi escono dalla ripresa, in un perenne alternarsi di azione e stasi, di potenza e atto.
A livello di contenuti, sarebbe semplicistico classificare la pellicola di Tseden come “politica”, nonostante siano presenti molti elementi che vanno in questa direzione. Tharlo potrebbe essere espressione dello smarrimento del popolo tibetano che, in balia dell’invasore cinese, non riconosce la propria identità e baratta la millenaria spiritualità con gli strumenti dell’oppressore, ovvero l’alcol, il fumo, il denaro e l’ambizione di una vita migliore, magari a Pechino o New York.
Ciò che più colpisce, in realtà, è l’insistenza sotterranea che il regista dedica alla persistenza della memoria e alla forza dell’oblio, facce della stessa medaglia che permisero, ai filosofi John Locke e Friedrich Nietzsche, di definire l’essenza della condizione umana; per il primo, il ricordo delle nostre azioni caratterizza il nostro io, mentre il pensatore tedesco fa dell’oblio il più importante degli attributi inespressi dell’uomo.
Come posizionare, in questo susseguirsi antitetico, l’ingenuo pastore che recita a memoria antiche canzoni e lunghissimi testi ma che non ricorda la propria data di nascita? È difficile dirlo ma dopo l’avventura amorosa finita male, il repentino cambio di acconciatura e di vita, il protagonista si rende conto di non essere più in grado di recitare il discorso di Mao, tuttavia non ne rimane sconcertato: nello scorrere del tempo, dopotutto, le cose nascono e muoiono eternamente, proprio come accade alla memoria di Tharlo, il quale, si ci pensiamo bene, non è altro che l’immagine cinematografica della nostra reminiscenza, del nostro tempo e del nostro oblio.