È normale a un festival: lo stesso film può essere visto in modi completamente diversi e con sguardi e approcci anche radicalmente confliggenti. D’altra parte la critica cinematografica è tutt’altro che una scienza esatta, e anche se il valore di un film spesso si presenta al giornalista di turno con l’evidenza assoluta dell’oggettività più indubitabile, quello che più spesso accade è che – anche tra colleghi preparati – il margine delle opinioni vari da “capolavoro epocale” a “film più sbagliato del festival” in un batter d’occhio. Ogni volta però che Terrence Malick presenta un nuovo film (e ultimamente sta iniziando ad accadere abbastanza spesso) il margine di disaccordo si divarica fino ad avere le sembianze di una guerra di religione. Il copione si ripete quasi sempre uguale con pochissime variazioni: una sequela di stroncature senza appello che sostanzialmente lo accusano di essere una specie di illustratore di desktop da quattro soldi; e uno sparuto gruppo di fan che urla al capolavoro senza se e senza ma (spesso anche indipendentemente dal film).
La cosa è accaduta puntualmente anche per la presentazione di Voyage of Time. Life’s Journey, con l’aggravante però che questa volta Malick ha davvero estremizzato la forma filmica della sua opera e ha presentato un film nel quale la sua riflessione filosofica e cosmologica trova una forma d’espressione pura, senza più essere sottomessa alle esigenze della narrazione. Con il risultato di esasperare ancora di più le spigolosità delle reazioni critiche.
Il problema è che prima ancora di giudicare un film, sarebbe buona abitudine provare a pensarlo. Soprattutto se abbiamo di fronte a noi un regista che – piaccia o meno – è stato in grado negli anni di costruire un pensiero del visivo di rara coerenza e radicalità (e quelli che sono capaci di farlo nel contemporaneo si contano davvero sulle dita di una mano). Prendere sul serio un film, invece che limitarsi a distribuire patenti di valore (che poi non si capisce bene su quali autorità si fondino), farebbe bene anche a chi quel film o quella poetica cinematografica, vorrebbe poi in piena legittimità criticare. Ce lo si dimentica spesso – soprattutto nella confusione dei festival o nell’ipertrofia narcisistica dei social network – ma la critica dovrebbe sempre anteporre l’argomentazione al giudizio.
Più film-saggio che documentario Voyage of Time è – comunque la si voglia pensare – un’opera sorprendente: una sorta di riflessione per immagini sulla vita e l’universo, l’Essere e la realtà, la ricerca di senso e la materia inerte della Terra. Non propriamente una storia cronologica dell’universo (anche se lo sviluppo per la gran parte lo ricalca) ma una meditazione a briglia sciolta che mette insieme delle immagini – a volte ricostruite, a volte documentarie, a volte è persino arduo percepire il confine tra le due – di fenomeni naturali e fisici che vanno dalla dimensione micro della fisica subatomica e cellulare all’immensità dell’astrofisica e della galassie. A fare da contrappunto c’è la voce di Cate Blanchett che sovrappone alle immagini una serie di domande più che delle vere e proprie affermazioni. La questione di fondo è infatti il dischiudersi dell’universo e del mondo agli occhi dell’uomo: e dunque l’articolazione delle relazioni tra noi – intesi come esseri umani localizzati in uno spazio e in un tempo definito – e un’entità così immensa e impossibile da oggettivare come è la totalità dell’universo.
Malick non è nuovo a progetti ambiziosi né ad avere il coraggio di ingaggiare riflessioni di un tale grado di astrazione. Ma l’idea di poter elevare il cinema alla portata di uno strumento speculativo (un mezzo cioè per conoscere la realtà, prima ancora che rappresentarla come fa il tradizionale cinema di finzione) è, in effetti, un unicum nel cinema di oggi. Per un regime del visivo contemporaneo che fa del dubbio, della distanza ironica e dello scetticismo la propria ragion d’essere, Malick non può che risultare indigesto. È davvero intollerabile questa ingenuità e questa naïveté nel guardare la natura; troppo in contrasto con il cinismo dello sguardo che si compiace solo di non poter guardare le cose o che magari preferisce continuare a ripetere come lo sguardo sia sempre foriero di cattiva coscienza e immoralità, e dunque di colpa (Haneke, Von Trier, Siedl etc.).
Malick fa del suo cinema un atto di fede, anche se non del tipo cristiano (manca la passione dialettica del cristianesimo per il negativo): piuttosto della possibilità del visivo di far emergere il senso dalle cose stesse. Se la scienza è capace di farci comprendere i fenomeni naturali, la composizione della materia e la realtà delle stelle è del cinema la potenzialità di capire il senso (o per meglio dire, l’aprirsi delle cose al senso). Il nome che infatti più di ogni altro influenza il cinema di Malick non è quello di un altro regista e non viene dalla storia del cinema, bensì dalla filosofia. È Martin Heidegger infatti il convitato di pietra di gran parte della sua opera, soprattutto recente: ma in Voyage of Time questo riferimento diventa chiarissimo. Vi è anche un elemento biografico ben noto: Malick prima di diventare cineasta ebbe infatti una brillante carriera nella filosofia. Laureatosi all’Harvard College nel 1965, iniziò un dottorato a Oxford incentrato proprio sul concetto di “mondo” in Heidegger e nella fenomenologia, ed ancora oggi la traduzione in inglese di un importantissimo testo di Heidegger del 1928 “Vom Wesen des Grundes” (nell’edizione italiana è stato intitolato L’essenza del fondamento) porta la firma di Terrence Malick. Trovare Heidegger nel cinema di Malick non è una sovra-interpretazione critica di chi vorrebbe usare (o abusare de) la filosofia per costringere un film a dire qualcosa che non dice, ma si tratta di qualcosa che emerge direttamente dalle immagini: soprattutto da questo legame tra il dischiudersi del senso delle cose allo sguardo e la continua domanda che l’uomo si pone quando è guidato dall’atteggiamento di stupore nei confronti della natura.
Tuttavia la costruzione di questo stupore che vuol rimandarci l’idea del perdersi dell’uomo nell’Essere stesso dell’Universo, si porta con sé due grossi problemi, che contraddistinguevano già il cinema di Malick del post-Tree of Life, ma che qui diventano ancora più evidenti. Malick per guardare la natura in questo modo ha bisogno di mettere in atto due grandi rimozioni.
La prima è la scienza vera e propria: ovvero, la scienza come pratica dell’astrazione numerica. Si sa che a partire quanto meno dal XIX Secolo, la scienza si è progressivamente sempre più emancipata dalla possibilità della visualizzazione e dell’esemplificazione. Gran parte della fisica teorica – e questo è tanto più vero quanto più ci avviciniamo ai momenti prossimi al Big Bang, come Malick fa all’inizio del film – rifugge dalla possibilità di “vedere” i fenomeni che descrive. La scienza insomma vede le cose con i numeri, non con gli occhi. Mentre Malick sembra coltivare l’idea che per capire il senso dell’Essere dell’Universo basti guardare la meraviglia delle sue forme. Ma è davvero così semplice bypassare un sapere che invece è ormai sempre più basato sull’impossibilità di essere visto? Il regista americano infatti – nonostante il numero impressionante di consulenti scientifici coinvolti in questo film – è molto più vicino alla poesia che alla scienza. Cosa che confermerebbe ancora di più l’ascendenza heideggeriana di questo progetto.
La seconda è invece la sessualità. Malick lo dice verso la fine del film: “l’amore ci unisce”; mentre la sessualità – insegna la psicoanalisi – è qualcosa che divide e che fa problema. Fedele a un’idea di visivo che rigetta completamente il negativo in direzione di un’adesione panica dell’Uomo all’Universo, Malick è infatti costretto a non vedere l’esperienza della sessualità. Lo si notava già in To The Wonder – l’imbarazzo del regista nel momento in cui deve vedere l’esperienza del sesso – ma qui è ancora più chiaro (riesce persino a girare un’intera scena con degli uomini primitivi senza mai mostrare il loro sesso). Per riuscire ad avere un rapporto di adesione immediata dell’Uomo all’Universo è necessario rigettare ogni possibile divisione.
Il problema di Malick, e questo film lo rende ancora più chiaro, non è allora tanto quello di aver intrapreso una strada estetizzante, manierista etc. come molti lo accusano di aver fatto. Non si tratta insomma di un eccesso di radicalità, ma semmai di un suo deficit: per pensare di guardare il dischiudersi dell’universo ai nostri occhi, Malick dovrebbe estremizzare di più il suo sguardo ed emanciparsi ancora di più dalla forma poeticizzante dell’immagine, che paradossalmente è ancora troppo legata alla forma cinematografica narrativa. L’astrazione della scienza, così come lo scandalo del negativo, meriterebbero di cogliere dell’universo il suo disincanto e non soltanto il suo stupore; il suo orrore e non solo la sua meraviglia; la sua divisività e non soltanto l’unione dell’uomo col cosmo. Altrimenti il pericolo non è quello di intraprendere programmaticamente la strada di un’alleanza tra il cinema e la scienza contemporanea, ma di finire pericolosamente nei territori della new age.