Una strada sterrata in mezzo al nulla. Un check point. Un uomo che ha bevuto troppo e ha dimenticato il passaporto. Niente che non si possa risolvere con il dialogo e un minimo di umana comprensione. Ma nel Donbass non c'è più nulla di ordinario e banalmente umano. Le parole diventano armi, il caos è la regola, la violenza si scatena all'improvviso. Sotto un cielo bianco e vuoto, dentro una luce brutale, che definisce i volti e i corpi (gli individui, soli) ma cancella lo sfondo (il mondo), il preside di una scuola si ritrova nei panni di un aspirante terrorista, con un kalashnikov nel bagagliaio (i ragazzi devono allenarsi alla guerra), in un avamposto militare senza senso, dove bazzicano anche delle ragazzine (fuori campo, forse sì, forse no).
Ma è solo l'inizio di Bad Roads (Pohani Dorogy). La prima delle quattro storie con cui Natalya Vorozhbit prova a raccontare la follia in cui è precipitata quella regione dell'Ucraina, tra milizie popolari, armate paramilitari, separatisti sostenuti dall'artiglieria russa, soldati della guardia nazionale, e in mezzo un popolo alla mercé di minacce, rapimenti, torture e l'uso indiscriminato di razzi in aree popolate. Bad Roads non è una cronaca o un documento, ma non è neanche solo una metafora. Le storie sono il frutto di testimonianze vere, e hanno ispirato un lavoro teatrale, prima di diventare cinema. Ottimo cinema. Che riesce a essere diretto, fisico, bestiale – per raccontare quanto sia feroce quella realtà – e allo stesso tempo quasi simbolico, universale.
Protagonista: il vuoto. Dentro e fuori gli esseri umani. Passando da una strada sterrata in una terra di nessuno alla fermata di un autobus, da un sanatorio abbandonato a una cascina cadente. L'assurdo del primo episodio, che è insieme surreale e inquietante, scivola dentro l'ansia che alimenta il secondo, il dialogo fra tre ragazzine in cui le parole diventano pietre, l'amore per un “fascista”, l'attesa senza fine di qualcuno che non può arrivare, di qualcosa che non può accadere, circondati dalle esplosioni. Per poi arrivare al terzo episodio, quello più duro, caratterizzato da una violenza insostenibile, ma anche da una complessità affascinante. C'è una ragazza torturata da un militare, senza pietà, anzi, con godimento sadico, e c'è il tentativo estremo di cercare un dialogo anche dentro quel concentrato di follia criminale, di provare a trovare l'uomo sotto la belva, l'assassino che odia gli ebrei, i gay e i “valori europei”, l'ex-ragazzo affezionato alla nonna che dopo aver toccato il fondo è andato sempre più giù, senza più riuscire a risalire. Sì, forse c'è una speranza, ma non nel Donbass, non quando l'esistenza è fondata sulla paura. E a proposito di valori europei, mica male l'ironia crudele della storia finale, l'anti-parabola della brava ragazza che ha investito una gallina e vorrebbe risarcire i proprietari, ma si ritrova prigioniera di un incubo. Eppure, quelle voci fuori campo, quel barlume di coscienza...
Al suo esordio cinematografico, Natalya Vorozhbit (nata a Kiev nel 1975), conosciuta per le sue opere teatrali (andate in scena anche al Royal Court di Londra), per la serie tv School (un successo in Russia), per le sceneggiature (cinema e televisione), dimostra di avere anche un occhio straordinario. Vedi i magnifici totali – pittorici ma crudi, astratti ma veri – che sembrano voler allentare la tensione dei dialoghi incalzanti e dei volti sofferenti (attori tutti notevoli), e invece finiscono per esaltarla: la piazza vuota su una scenografia di palazzine anonime, tra luci elettriche e fuochi di guerra lontani; la breccia di luce tra le rovine in cui si consuma l'epilogo della tortura trasformata in un impossibile sogno d'amore...
La prima rivelazione di questo festival ce la regala la Settimana della Critica.