Che a Stéphane Brizé interessino l’intimità e l’umanità dei personaggi che racconta non è certo una novità. Anche i suoi film più politici infatti si costruiscono intorno a individui alle prese con una lotta personale i cui risvolti esteriori e le cui conseguenze pubbliche diventano strumento nelle mani del regista per mettere a tema la questione civile e sociale. Ma si tratta di uomini e donne, prima di tutto. Brizé è infatti, sopratutto, un regista di storie umane ed emotive, psicologiche e sentimentali; storie che talvolta spinge verso il melodramma, che talaltra tiene più drammaticamente legate a una dimensione quotidiana della realtà. Hors-saison non rappresenta dunque una pausa nel cammino del regista, né una digressione. Al contrario. La peculiarità di questo nuovo film sta piuttosto da un’altra parte. Hors-saison ruota infatti, come tutto il cinema del regista di Rennes, intorno alla disillusione e alla frustrazione che ne consegue ma la racconta in un modo nuovo: attraverso la costruzione dello spazio.
Sempre coerente con la sua attenzione estrema per i personaggi (e per gli attori) – anzi con il suo renderli vera e propria chiave di volta della rappresentazione – Brizé struttura tutta la prima parte del film intorno a Guillaume Canet e al suo Mathieu, famoso attore (sic!) di cinema in crisi per essersi ritirato a pochi giorni dal debutto teatrale, terrorizzato dal fallimento e dall’inadeguatezza performativa. Il lussuoso albergo in riva all’oceano nel quale Mathieu prova a nascondersi per trovare, tra thalassoterapia e massaggi, la motivazione per riprendere a lavorare e il coraggio di affrontare l’umiliazione per il passo falso, viene messo in scena da Brizé con un lavoro finora inedito, o quanto mai cosi formale e controllato, tanto che l'edificio diventa esso stesso un vero e proprio personaggio con cui il protagonista si mette in relazione. Ed è una relazione disfunzionale. Mathieu che lì si è rifugiato confidando nel potere taumaturgico di quel mondo algido, fatto di pareti bianche e vuote, di vetrate sul mare, di sale da pranzo eleganti e di cabine terapiche rilassanti, finisce al contrario per torvarci solo ulteriormente disorientato. Tutta la prima parte del film lo vede infatti pressoché solo sulla scena mentre, vittima della sua goffaggine, inanella una serie di comiche disavventure. Quasi in una sorta di controcanto di M. Hulot et le vacances, Mathieu vaga per l’albergo comicamente solo e stordito, le uniche interazioni con qualcuno del personale dell’albergo che lo molesta con inopportune richieste di selfie o con la sbrigativa moglie che lo liquida al telefono. Se gli umani lo ignorano o lo sfruttano brevemente, al contrario sono gli oggetti a mostragli esplicitamente la sua inettituine: la macchina del caffè che non riesce a fermare, la porta telecomandata che fissa mentre si apre e si chiude, i gambali da massaggio che lo legano al lettino. Tutto in quel mondo perfetto e meccanico pare parlare a Mathieu della sua inadeguatezza e dell’assenza di umanità. Fino all’arrivo imprevisto di Alice.
Quando il corpo di Alba Rohrwacher irrompe con quel fascino alieno che i registi stranieri spesso cuciono sapientemente addosso ai suoi personaggi malinconici e un po' décalé, il film cambia, la scena cambia, la fotografia si scalda e lo spazio lo occupano gradualmente in due. Mentre fuori l’oceano e il vento continuano indifferenti a dire la loro, Mathieu e Alice (che molti anni prima hanno avuto una relazione rotta bruscamente da lui) occupano allora una piccola sala di thé illuminandola con i loro sorrisi, occupano un ristorante sul mare avvolgendolo nel dolore, occupano l’abitacolo di un'auto cercando una soluzione. E cosi faticosamente, conflittualmente, si riposizionano al centro dello spazio che a quel punto non li sovrasta più ma li include rimettendoli al loro posto dentro alle immagini e consentendogli, forse, di riprendere in mano le loro esistenze. Anche Mathieu, grazie ad Alice.