Concorso

Father Mother Brother Sister di Jim Jarmusch

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Film a episodi come in passato lo sono stati Taxisti di notte e Coffe and Cigarettes, il nuovo lavoro di Jim Jarmusch è una sonata in tre movimenti, di cui i primi due sono una variazione sul tema e il terzo una ripetizione e una soluzione. In tutti e tre ci sono o un padre o una madre o un fratello o una sorella, mai tutti e quattro insieme, con uno o più pezzi mancanti, eppure sempre con l’idea che anche gli assenti, morti o mai nominati, fanno in qualche parte del quadro d’insieme, ovvero il quadro di una famiglia spaccata, sbagliata, soffocante, assente.

Niente di nuovo per quanto riguarda il cinema di Jarmusch (Broken Flowers), eppure mai qualcosa di così equilibrato e lucido. Father Mother Brother Sister è un gioco, e come ogni gioco è serissimo: come un film di Mike Leigh fatto da un nevrotico che sa ancora ridere e sorridere (e talvolta anche piangere).

Si comincia dagli Stati Uniti, con un fratello e una sorella adulti (Adam Driver e Mayim Bialik) che si recano in visita al padre vedovo (Tom Waits) che vive isolato nei boschi: la situazione è agghiacciante, l’imbarazzo palpabile, il silenzio dietro le parole assordante e lo stile calibrato al millimetro (peccato per i green screen delle riprese in auto, che tradiscono i limiti del budget) fa il resto, nascondendo dietro la geometria delle riprese e il simbolismo dichiarato degli oggetti (un Rolex vero o finto, che poi tornerà in ogni episodio) tutte le possibili ed enormi ferite che un uomo egoista e bugiardo ha inferto ai figli, e probabilmente anche alla moglie.

Si prosegue poi a Dublino con la copia leggermente sbavata del primo episodio, questa volta protagoniste tre donne: una scrittrice benestante e gelida interpretata da Charlotte Rampling, che vede le figlie Catherine Blanchett e Vicky Krieps una sola volta l’anno per un tè in casa sua. Stesso schema o quasi: viaggio in auto verso la casa (con le sorelle separate, mentre primi i due figli erano insieme), incontro formale e imbarazzato, piccoli dettagli che tornano (ordine e disordine, acqua e tè, cibo regalato e/o mangiato…) e congedo deprimente e liberatorio. Qui il padre non è mai nominato e nelle foto esposte, diversamente dal primo episodio, le figlie bambine sono di spalle, come a modificare gli addendi di una somma e ottenere il solito risultato di una realtà familiare in cui il silenzio recita muto il suo contrario, l’urlo che probabilmente qualcuno dei personaggi caccerà una volta solo.

Infine il terzo episodio a Parigi, dove un fratello e una sorella gemelli (i bravissimi Luka Sabbat e Indya Moore) visitano un’ultima volta l’appartamento dei genitori morti in un incidente aereo. Diversamente dagli altri personaggi, questi due fratelli si amano, si parlano, si abbracciano, si sostengono, ed entrano in una casa vuota (e non fintamente disadorna o spaventosamente in ordine come quelle degli episodi precedenti) per accorgersi di non sapere nulla di chi li ha messi al mondo (e lo scoprono sfogliando vecchi documenti, guardando foto e disegni, toccando oggetti), ma anche di sentirne la presenza e l’amore ancora intatti. E la risoluzione dei conflitti aperti degli altri episodi arriva quando i due personaggi sono filmati prima frontalmente, sul balcone dell’appartamento, e poi di spalle, mentre si allontanano dal garage dove hanno stipato (in ordine, ma nel caos) le cose dei genitori…

Mai come in questo caso il cinema per Jarmusch è una questione di spazio e di tempo – lo spazio delle inquadrature, che nei primi due episodi sono celibi e nel terzo sono ripetute o sdoppiate, e il tempo di un dialogo, di un’ellissi, di un piano fisso o di una sequenza in slow motion ripetuta – e dunque di montaggio, di ritmo, di incastri che ripetono e di cambi che risolvono, alla maniera del cinema classico, ma dentro le forme di un minimalismo poetico che ha avuto il suo manifesto in Paterson e qui ha il suo piccolo, splendido e commovente romanzo familiare.