«E la morte è sempre la morte. In qualunque momento arrivi, la morte è sempre la morte» ha scritto Martin Amis nel suo ultimo romanzo, La storia da dentro. In Oppenheimer di Christopher Nolan, andando oltre le riflessioni dello scrittore inglese, attraverso lo sguardo del protagonista – il fisico J. Robert Oppenheimer, responsabile del progetto Manhattan che dal 1942 costruì nella riserva di Los Alamos la bomba atomica – non solo la morte è sempre la morte, ma la morte è in ogni cosa. Tutto porta i segnali di morte: l’acqua su cui il film si apre; il fuoco su cui il film si chiude; i piedi sbattuti dai collaboratori in segno d’esultanza dopo la distruzione di Hiroshima e Nagasaki; anche il fazzoletto che il presidente Truman (Gary Oldman) offre a Oppenheimer (Cillian Murphy) per lavarsi simbolicamente il sangue che ha sulle mani. «La gente non si ricorderà di chi ha costruito la bomba», dice il presidente, «ma di chi ha deciso di sganciarla. E quell’uomo sono io».
Eppure Oppenheimer sente di essere diventato lo strumento di quella morte, come dice quando traduce dal sanscrito il verso del Bhagavad-Gita: «Ora sono diventato la Morte, il distruttore dei mondi». All’amante Jean Tatlock (Florence Pugh) che gli chiede di decifrare quel muro di segni incomprensibili, Oppenheimer risponde senza tentennamenti, perché decifrare l’incomprensibile – non solo il sanscrito, ma la natura intera – è il lavoro suo e di tutta la comunità di fisici quantistici che nel film passa in rassegna, da Albert Einstein («La mente più grande del suo tempo», come dice il commissario dell’AEC Lewis Strauss/Robert Downey Jr quando chiede a Oppenheimer il motivo dell’esclusione dal progetto Manhattan, al che quell’altro: «Del suo tempo, per l’appunto») a Niels Bohr (Kenneth Branagh), da Werner Heisenberg a Edward Teller (Benny Safdie) ed Enrico Fermi (perché così poco spazio?).
Fin dall’apertura del mi film, che per più di un’ora ha il ritmo vorticoso di un’introduzione (Nolan sa bene che i biopic ormai sono una forma morta, e di conseguenza con Oppenheimer distrugge il genere con una narrazione schizoide che per suggestioni ricorda il montaggio vorticoso di Casinò o l’inchiesta per frammenti di JFK – Un caso ancora aperto), Oppenheimer vede nella realtà i segni manifesti di quello che sta oltre, forze invisibili che trattengono un’energia potenzialmente devastante, e sembra esserne travolto: immagina la distruzione, vede l’esplosione, si pensa al centro dell’azione, come testimone e portatore di morte. Per Oppenheimer la realtà materiale è la manifestazione di una natura invisibile, ovvero la vera natura delle cose che fa degli oggetti comuni – ad esempio, i mazzi o i vasi di fiori, continuamente rifiutati, scansati e buttati via, ma anche i vestiti, una sbarra o una fiaschetta – meri orpelli da togliere di mezzo, perché ingombrano la vista, intralciano il cammino.
In questo senso, Nolan sembra riprendere le riflessioni di PT Anderson sull’impenetrabilità della realtà da parte dell’intelletto, e di rimando dell’immagine cinematografica, in The Master, film forse citato nella scena dell’interrogatorio in cui Oppenheimer e Jean sono nudi in mezzo ad altra gente vestita… Nell’America del dopoguerra, il sogno di possedere lo spazio e il tempo – che per il guru Lancaster Dodd era un sogno da cialtroni, mentre per Oppenheimer è un’utopia realizzata – avvicina l’uomo alla verità della natura, ma diventa un’ossessione distruttiva. Per Anderson non c’è modo di scalfire la materialità delle cose, non c’è immagine o terapia che possa accedere all’invisibile (in una scena del suo film un vetro di una finestra restava un vetro, la luce lo trapassava ma l’uomo no); per Nolan, invece, attraverso il potere da demiurgo di Oppenheimer l’invisibile diventa immagine (con tutti i limiti della rappresentazione delle forze invisibili della natura, tra fasci di luce, globi infuocati, scintille scoppiettanti, come già in The Tree of Life di Malick).
Prima, però, che nell’imprevedibilità degli effetti naturali (i dubbi degli scienziati impegnati a costruire la bomba erano legati soprattutto all’eventualità di una reazione a catena che avrebbe distrutto la Terra), l’eroe del film – ed è qui che sta il cuore del lavoro di Nolan, ispirato dalla biografia di Kai Bird, Martin Sherwin vincitrice del Pulitzer (Oppenheimer, Garzanti) – si perde nel caos della Storia, nel conflitto tra gli uomini. Anche perché è da quello stesso conflitto, fatto di dubbi, scontri, incertezze, macchinazioni, tentennamenti, distorsioni, tradimenti, paure, angosce, reazioni inconsce, relatività, che nascono le intuizioni di Oppenheimer e, prima e dopo di lui, di un’intera scuola di pensiero che inventò la fisica quantistica nel momento stesso in cui, come Nolan mostra all’inizio del film, altri creavano la psicanalisi e l’arte astratta (e anche il cinema, andrebbe aggiunto, ma su questo il regista ha già dato…) dotando l’uomo di una possibile risposta al mistero della (propria) natura. C’è in questo senso, come suggerito per primo da Alberto Libera, qualcosa di simile tra Oppenheimer e Asteroid City di Wes Anderson (un film che col tempo emergerà per la sua grandezza di cui a Cannes era impossibile accorgersi), la medesima domanda su come interpretare l’insondabilità dello spazio e del tempo, accomunando, forse, la scienza in un caso e l’arte in un altro.
In entrambi, comunque, al centro della scena (letteralmente, nel caso di Anderson), resta l’uomo. E Oppenheimer è soprattutto la storia di un uomo messo di fronte alle sue responsabilità e lasciato solo di fronte alla Storia. Buona parte del film – che è fatto di continui andirivieni temporali, di passaggi dal colore al bianco e nero, di scene riprese da punti di vista differenti, di un’introduzione frenetica a cui seguono un corpo centrale più narrativo e una parte finale rivelatrice, il tutto girato con quello che ormai è il non-stile di Nolan, camera a mano, movimenti di macchina vorticosi, musiche opprimenti – è infatti dedicata al processo a porte chiuse che Oppenheimer subì in piena Caccia alle streghe per le sue posizioni di sinistra negli anni Trenta, e mostra lo scienziato stritolato dal potere, dalla famiglia, dalle relazioni con il resto della comunità scientifica (e qui Nolan non è esente da un pizzico di agiografia…).
Soprattutto, il film mostra un uomo, J. Robert Oppenheimer, fisico geniale ma non tra i massimi del suo tempo, definito sprezzantemente un autodidatta, una personalità che nasconde anche il suo nome (la J sta per Julius, ma non lo dice mai) e soprattutto che non prende posizione, che non dice cosa pensa fino in fondo, che si fa divorare dai dubbi ma al tempo stesso lancia proclami contro il Giappone e la Germania, che stringe la mano ai suoi nemici (con estremo disprezzo della moglie Kitty/Emily Blunt), che sembra farsi travolgere dal mondo nel momento stesso in cui ne è diventato il segreto padrone. L’Oppenheimer di Nolan è incredibilmente simile, anche fisicamente, all’«uomo che non c’era» dei Coen, una figura storica suo malgrado, un uomo d’ingegno, ma non un genio, che seppe di aver fallito proprio nel momento in cui aveva portato a termine la missione più grande.
Agli occhi di Nolan – in quello che è il suo film più ambizioso e riuscito, che grazie alla sua gravità riesce a superare i limiti di un’idea di cinema che cerca nel movimento continuo l’equilibrio stilistico che gli manca – un’epitome del Novecento, un uomo del passato che ha potenzialmente tolto all’umanità la possibilità del futuro.