Il terzo film di Larraín è il secondo pannello di un trittico sul passato mai remoto del Cile, la cassa centrale, lasciata coperta per quasi quarant’anni. È un’autopsia sul corpo ancora caldo della Storia, quella negata al corpo di Allende appena morto (un referto accettato più che scientificamente provato). In uno schiacciatissimo 2,66:1, Post Mortem instaura una dialettica continua tra lo spazio, il fotogramma, e i corpi: i vivi, i morenti, i morti viventi, i morti ammazzati e i presunti suicidi; un conflitto continuo tra il margine e il centro dell’inquadratura, nella luce slavata e opaca di un kit di ottiche sovietiche d’epoca. Mario, funzionario apatico e squallido (l’impagabile Alfredo Castro), sembra rifiutare il centro dell’inquadratura, non per eccentricità, ma per ignavo conformismo: solo Nancy, ballerina di varietà anoressica, tesa all’azzeramento, all’ossificazione del corpo, riesce a riportare la sua attenzione verso il centro del frame; ma forse è già fantasma, sepolta sotto cumuli di mobili e rottami, proprio in mezzo all’inquadratura, eppure fuori scena.