10. Il cavallo di Torino
di Béla Tarr (2011)
L’apocalisse arriva in sei giorni, come la creazione. Béla Tarr – con il suo film più complesso e risolto, forse il suo capolavoro – mette in scena la fine del mondo come una lenta e inavvertibile discesa verso le tenebre. Lo fa partendo da uno spunto filosofico che è poco più di un pretesto. Il cavallo frustato che suscita compassione in Nietzsche, così come il vetturino che lo conduce a casa, sono le due facce della stessa miseria umana e sono emanazione della stessa morte. Non la morte intesa come trapasso ma come assenza di vita in tutto ciò che sta loro intorno. Nel mondo grigio e brumoso che Tarr mette in scena – che è ogni luogo e ogni tempo della storia dell’uomo – si ripetono sempre le stesse azioni e gli stessi gesti fino a che ogni forma di umanità si annulla (e risulta assimilabile a quella animale – di un cavallo magari). E in un mondo dove non esiste pensiero, non esiste arte – i saltimbanchi tentano di salvare la giovane figlia del vetturino senza riuscirvi – e non esiste alcuna speranza, non resta che attendere che tutto (anche lo schermo del cinema) affievolisca e si spenga per sempre come la luce di una lampada a olio.