Il presente come tempo invisibile: viverlo forse, comprenderlo mai. Sils Maria, come tutto il cinema di Assayas, è la proiezione di un tempo altrove, in una terra dove i fantasmi (del passato, del futuro) si rincorrono nell’esigenza di dare un senso a un oggi, in ogni sua declinazione, che ci ordina di fare i conti con un’esistenza intera. Un attimo dopo non siamo più gli stessi, nella vita reale e nella sua rappresentazione teatrale: i ruoli si invertono, le cose cambiano, senza mai poterle afferrare sul serio. Si viaggia sempre in Sils Maria: con i treni, con la memoria, lungo le bisettrici dell’anima, in cerca di un angolo dove posarsi, probabilmente dove morire; e tutto ritorna, a cominciare dal cinema. Ma la realtà è inestricabile, ogni bellezza ha la sua frattura. Quando sul Maloja si modella il serpentone di nuvole che avanza, qualcuno esce di scena, scompare: senza un perché, una motivazione. Attorno l’estasi è totale: tutto è così perfetto, compresa la musica barocca di Pachelbel e Händel. Tranne noi.