Assieme a Sólveig Anspaugh e a Jessica Hausner, Antonietta De Lillo è stata una delle protagoniste del focus sulle donne registe (Europa: femminile, singolare) al centro del programma del Bergamo Film Meeting.
Al termine delle proiezioni dei suoi film la regista ha incontrato il pubblico ripercorrendo i suoi esordi («Ho cominciato a fare cinema per caso. Ero fidanzata con Giorgio Magliulo, che amava il cinema, ma lo riteneva una missione impossibile. Io, con spirito femminile, ho detto: "se ti piace il cinema, andiamo a farlo". E così siamo partiti da Napoli per Roma ed è iniziata un’avventura») e definendo il suo approccio al cinema simile a quello di un artigiano: «Io sono come il personaggio di un vecchio spot che diceva "a scatola chiusa non compro niente". Sono una che deve conoscere la meccanica. Non sono una che delega tutto: devo capire come funzionano le cose. Mi sento un’artigiana. Una che, in maniera semplice, cerca di capire come raccontare le cose e a cui piace fare».
Durante l’incontro col pubblico si è parlato soprattutto del suo film del 2004, Il resto di niente, sia per motivi contingenti (l’incontro si svolgeva a ridosso della proiezione di quel film), sia per motivi sostanziali: indubbiamente, Il resto di niente spicca come il lavoro più maturo e complesso di questa autrice. Senza nulla togliere agli altri suoi lavori – alla simpatia dei primi lungometraggi diretti assieme a Magliulo (Una casa in bilico, 1986 e Matilda, 1990), operine spiritose, tentativi (non sempre riusciti) di ricorrere a formule di commedia abbastanza insolite nel cinema italiano, o all’interesse documentaristico dei numerosi videoritratti dedicati a personaggi come Lucio Fulci, Tonino Guerra o Alda Merini – Il resto di niente emerge come opera figurativamente e narrativamente molto elaborata che, attraverso il personaggio di Eleonora Pimentel Fonseca, sviluppa una riflessione non didascalica sulla rivoluzione mancata e sulla consapevolezza della necessità – sempre elusa dagli intellettuali italiani – di parlare una lingua che potesse (che possa) essere compresa dal popolo destinatario dei progetti di cambiamento.
A proposito di questo film, De Lillo ha sottolineato come il libro di Enzo Striano che lo ha ispirato, prima di essere pubblicato dalla Mondadori (originariamente era uscito per un piccolo editore locale), era diventato un “libro di culto” a Napoli, perché la rivoluzione fallita della Repubblica napoletana è ancora oggi «una ferita molto sentita». L’approccio della De Lillo è stato guidato dall’idea di «stravolgere il romanzo, rimanendo però fedele al suo spirito»: è «complesso prendere un’altra opera, reinventarla ma restare fedele allo sguardo».
Quello di Striano «è un romanzo molto canonico, che dedica molto spazio alla Storia con la S maiuscola, alla descrizione dei luoghi. Io ho levato tutto questo e mi sono messa nell’anima di Eleonora. Ho voluto raccontare lo spirito: cosa porta una persona a seguire un’Utopia e a muoversi per realizzarla. Ho cercato di raccontare l’interno dei personaggi, quello che muove le azioni più che le azioni». La focalizzazione sull’interiorità del personaggio fa sì che il film, a parere della regista, possa essere visto e apprezzato anche da chi non conosca le vicende della rivoluzione napoletana e dei giacobini: «Il film parla al nostro presente. Ognuno di noi ha l’obbligo di fare una piccola rivoluzione dentro di sé. Una rivoluzione da fare giorno per giorno, non contro qualcuno, ma una rivoluzione "dolce" dentro di noi».
Durante la discussione si è parlato anche di film partecipato: nel 2010 Antonietta De Lillo coordinò il lavoro di vari registi in un film collettivo intitolato Pranzo di Natale. Ora ha lanciato un nuovo tema (Oggi insieme, domani anche) per un nuovo film partecipato incentrato sull’amore. I registi che aderiranno a questo progetto potranno realizzare dei corti (non di finzione) che avranno vita autonoma (potranno partecipare a festival, ecc.) ma che saranno “tutorati” dalla Marechiaro e saranno quindi raccolti per farne un film di montaggio costruito coi frammenti dei vari contributi.
«L’idea è che un lavoro individuale come quello del regista possa essere condiviso. Negli ultimi anni abbiamo avuto una narrazione dell’Italia che è stata molto squilibrata. Ognuno ha raccontato quello che gli faceva piacere raccontare. Se tanti occhi possono guardare la stessa realtà e poi insieme riescono a formare un racconto, si può probabilmente arrivare a una narrazione più equilibrata di questo paese».
L’importanza della condivisione emerge anche alla risposta sulla “scuola napoletana”, ossia il gruppo di autori partenopei emerso negli anni ’90 (Martone, Corsicato, Capuano, Incerti per citare i registi che, assieme alla De Lillo, hanno firmato gli episodi de I vesuviani, 1997): «Non ci fu nessuna scuola napoletana. Quella fu soprattutto un’invenzione mediatica. C’erano però delle persone che riuscivano a collaborare. C’era solidarietà tra colleghi. Potrebbe sembrare una cosa scontata e invece non lo è. Più spesso tra colleghi c’è rivalità. In quel caso invece c’era un rapporto di scambio».
La sottolineatura della condivisione e della collaborazione come metodo di lavoro ci porta a dire che questa potrebbe essere la cifra poetica di tutto il cinema dell'autrice, il motivo che lega assieme opere apparentemente lontane come le citate commedie degli esordi e un film complesso come Il resto di niente: con modi leggeri, anche i primi lavori della De Lillo avevano infatti al centro il bisogno di superare la distanza che ci separa dagli altri, che ci porta a vederli come estranei o nemici o diversi, e di ricercare quello che invece possiamo condividere con loro. Ecco il senso della “rivoluzione interiore” che il film sulla Pimentel Fonseca ha voluto rappresentare.