L'intromissione e l'incidenza mediatica abbattutasi sulla vicenda dei "tre di West Memphis" è stata determinante nel condizionare lo sviluppo del calvario processuale toccato in sorte a Damien Echols, Jessie Misskelley e Jason Baldwin, figli sciagurati della sterminata provincia proletaria americana, accusati dell’assassino di tre bambini solo per la colpa di esibire con sfrontatezza la loro capricciosa stronzaggine adolescenziale.
Seppur nulla riconducesse ai ragazzi, soltanto per il fatto di mostrarsi superficialmente conformi ai dettami del black-metal più turpe e violento, i tre sono immediatamente visti e raccontati come il capro da sacrificare, la cattiva coscienza da abbattere per ristabilire l’ordine sociale in una comunità sconvolta da un omicidio venduto dall’informazione come un satanico cerimoniale.
Il vantaggio di questo meccanismo è evidente: consente di dare un senso e soprattutto un volto immediato al dolore. E l’esito sarebbe stato certo (due ergastoli e una pena capitale) se non fosse intervenuto l’investigatore privato Ron Lax, il primo a far emergere le molte ambiguità di un’indagine che è eufemistico dire superficiale.
Un plot congeniale alla sensibilità registica di Atom Egoyan in cui ritornano i temi che rappresentano i cardini del suo cinema: l’indagine che non porta al colpevole ma getta un’ombra di corresponsabiltà su tutti i soggetti coinvolti nella tragedia, negando quindi una presunta innocenza anche in coloro che sarebbero le vittime; la morbosità quiescente propria dei sistemi chiusi riaccesa dall’interferenza di un corpo estraneo; un sottotesto fiabesco che ammanta d’inquietudine una storia che è il risultato di un’infinità di micro-movimenti.
Eppur tutto questo non basta. Egoyan in Devil’s knot cerca, come già in False verità, di declinare in chiave mainstream la propria poetica che però, come scrisse Luca Pacilio, «mal si presta ad essere applicata ad ambiti diversi da quelli originali prospettati dallo stesso regista». Qui rinuncia al sofisticato gioco di scatole cinesi, alla combinazione tramica di situazioni e spostamenti, preferendo, a torto, una maggiore linearità narrativa, che sicuramente facilita in termini di lettura, ma priva completamente di quell’ambiguità strutturale, specchio dell’ambivalenza dei personaggi, che era la forza destabilizzante, perché relativizzante, del suo cinema. Ricorrendo meno all’utilizzo di piani temporali sfalsati viene a mancare quel senso di detour visivo e cognitivo degli eventi che si ripercuote negativamente sull’aspetto tensivo dell’opera.
Questo lavoro di semplificazione ha esiti infelici anche nella costruzione dei personaggi: se i comprimari sono risolti per accumulo di scontati dettagli, inserti didascalici che scadono nella banalizzazione, la presenza dell’investigatore è del tutto ingiustificata. Nella figura di Ron Lax Egoyan vorrebbe riproporre quella dell'avvocato Stevens de Il dolce domani. Però, mentre nel film del ’97 il personaggio aveva una sua logica nell’economia narrativa, anzi, la sua vicenda interiore rappresentava proprio il punto focale dell’opera (lui, padre di una figlia “smarrita”, si riconosceva nel dolore di quelle famiglie che, in seguito a un incidente dell’autobus scolastico, avevano perso i loro bambini e allo stesso desiderava che queste coltivassero il suo stesso rancore per la perdita) in Devil’s knot non c’è nessuna corrispondenza tra Lax e la tragedia di West Memphis: il fatto che si stia per separare dalla moglie è del tutto ininfluente e gratuito, completamente inutile.
Se Il dolce domani piegava i meccanismi della detection per condurre un’indagine esistenziale, qui si rimane irrimediabilmente impantanati nella sfera cronachistica.