Occasione necessaria e per questo preziosa quella offerta dal Bergamo Film Meeting che, all’interno della retrospettiva Europa: femminile, singolare, ha dato modo di incontrare Jessica Hausner e di confrontarsi, per intero, con il suo percorso filmografico, vera e propria esplorazione dei «limiti del visibile nel cuore del visibile», come direbbe Marco Dinoi. Opportunità rara per sottrarsi alla medietà spettacolare dei tempi, peraltro in un tempo in cui lo stare al cinema è un gesto per niente scontato.
Di fronte ai suoi lavori lo spettatore è messo in una condizione di insolubile tensione verso la visione, poiché l’orizzonte della rappresentazione è l’invisibile. «Gioco con l’idea che dietro la tenda si nasconda qualcosa – così ha dichiarato la regista - i miei film raccontano l’incognita di ciò che ci sfugge».
E così è stato da subito. L’esordio, folgorante, nel 2001 con Lovely Rita, e quelle sue scene tagliate che costringono chi guarda a domandarsi cosa potrà esserci in quella porzione d’immagine rimasta fuori dall’inquadratura, dice già molte cose dell’idea di cinema che muove il gesto registico di Jessica Husner, allora non ancora trentenne.
In questo ritratto epidermico delle mercuriali violenze di cui può essere capace l’adolescenza predestinata alla morte altrui, che precorre di un anno l’imperscrutabile strage messa in scena da Haneke in Benny’s Video, si può già cogliere un’attenzione tutta rivolta a quel brulichio indecifrabile che si agita ai margini della scena.
Infatti nella regia immediatamente successiva, Hotel del 2004, la Hausner si spinge letteralmente oltre i bordi del quadro, elaborando immagini che si configurano come sineddoche di qualcosa di più ampio e implicito.
Un progetto impudentemente ambizioso, e dunque ad alto rischio reputazionale, per mezzo del quale affermare, apertamente, il proprio sguardo autoriale. La regista decide di rileggere Shining attraverso l’ossessione di Dreyer per il fuori campo. Quindi l’attrazione centripeta kubrickiana diventa forza centrifuga che si struttura proprio in funzione dell’invisibile e in virtù del quale personaggi e cose sembrano attirati da un centro che è fuori dall’immagine, oltre i bordi e i lembi dello schermo. Se i labirintici corridoi dell’Overlook si presentavano come luogo di apparizioni e disvelamenti, quelli dell’Hotel Waldhaus si aprono sull’ignoto e portano alla rarefazione figurativa, a un’inesorabile smaterializzazione.
Hotel è un’opera che rientra a pieno titolo nell’arte del non vedere di cui parla Merleau-Ponty, cioè di quella tensione verso l’invisibile in quanto potenziale nascosto che determina e costruisce il visibile, e per questo minacciosa, perché, come diceva Deleuze, «il fuori-campo testimonia di una presenza più inquietante, di cui non si può dire che esiste, ma piuttosto che “insiste” o “sussiste”, un Altrove più radicale, fuori dallo spazio e dal tempo omogenei». Nascondendo e svelando solo per gradi, la regista allude alla presenza di un mistero che non si trova mai esplicitato, che non è mai nominato, né mai risolto.
Una narrazione di tipo parabolico, che si perfeziona ulteriormente nel, fino ad ora, ultimo film, Lourdes (2009). Qui il fuori campo diventa strumento attraverso il quale compiere una ricognizione fenomenologica del sacro, dell’ignoto che sfugge alla razionalità. La Hausner traduce in termini registici l’idea baziniana secondo cui l’immagine è parte di una realtà più estesa che si prolunga al di là dei bordi dello schermo.
Non è un caso che i protagonisti di questo pellegrinaggio presso l’eponimo santuario mariano spesso fissino sgomenti oltre il margine del quadro, che i loro sguardi si spingano verso l’esterno dell’immagine, dove si avvertono forti indizi di presenze che rimangono però insoluti.
Pur estendendosi nel non diegetico, lasciando intuire una realtà che esiste indipendentemente dalla macchina da presa, la regista non cerca di andare oltre i confini del filmabile, non vuole provare a cogliere qualcosa che si colloca al di là del visibile, perché sa di avere a che fare con uno strumento d'indagine ontologicamente visivo.
Questo rigore lo si ritrova anche nella maniera in cui si approccia ai personaggi sempre osservati a distanza di sicurezza. Non è interessata a focalizzarsi su psicologie, motivazioni, traiettorie emotive. Non cerca coinvolgimento affettivo, quindi nessuna morbosità, nessuna empatia. La Hausner registra il comportamento dei corpi, le parole delle labbra, mai le motivazioni che possano giustificarle. Perché il cinema non dovrebbe mai commentare. Sa solo quello che vede.