È un inno alla lentezza, Lida di Anna Eborn presentato nella sezione Visti da Vicino. La lentezza dell’incedere degli anziani che sono i protagonisti; la lentezza della ricostruzione di una storia personale attraverso il riaffiorare dei ricordi; la lentezza – non da meno – di un certo tipo di cinema che vive di realtà e che necessita di anni e anni di girato per poter far nascere, finalmente, un progetto finito.
Lida è infatti un’ottantunenne nata in Svezia, che, nel corso della Seconda Guerra Mondiale, con l’occupazione tedesca del suo Paese natale e il conflitto tra Germania e Russia, è stata costretta a vivere in un campo di lavoro in Siberia, prima, e in un’enclave svedese all’interno dell’Ucraina dell’Est, poi. Abita in una “casa per anziani”, fatta di grossi stanzoni condivisi e scarsa assistenza, che lei stessa racconta con sguardo naïf: ride mostrando il letto in fondo al corridoio sul quale vengono posati i morti, ride quando accenna a pettegolezzi con le altre signore (da quella che non si lava, a quella che l’ha insultata), ma soprattutto ride – come una ragazzina – quando presenta il suo spasimante. Lida è, com’è facile intuire, una donna gioiosa ed energica. Eppure, ben presto si scopre, porta dentro di sé immense ferite: ci sono i figli che la morte le ha tolto e quelli che la vita le ha messo distanti, e ci sono gli orrori che la Storia con le sue guerre le ha fatto vivere. Sradicata dalla sua casa, come quel grosso albero di cui parla in chiusura del film, Lida ha messo radici solide altrove. Così solide da farla crescere nella sua solitudine: ha perso ogni contatto col figlio, Arvid, eremita, ma anche con la sorella, Maria. I suoi cari, vivi, benché lontani, non sono per lei altro che ricordi, alla stregua di quelle estati in campagna con mamma e papà, del lavoro nella foresta, della gioventù, che la Eborn tenta di riportare alla luce con la pellicola da 16 mm e tutti i suoi “difetti” (sovraesposizioni, righe sull’immagine). Ricordi che riaffiorano a poco a poco, lentamente, tra flash di campi di battaglia e di perdite.
È un film rispettoso, perciò, quello che la regista sceglie di girare, tanto dei tempi che l’anziana e le sue amiche impiegano per camminare o per parlare, quanto di quelli di cui necessita invece la memoria: Anna Eborn ha filmato Lida per sette anni, cercando di cogliere l’anziana donna dalla voce roca che parla un’antica lingua del Settecento in via d’estinzione, ma soprattutto e prima di tutto – tant’è che centrale sarà lei, più ancora della lingua – della sua persona, coi suoi detti e i suoi celati (si accenna a dei trascorsi con l’alcool e a molti uomini). È uno sguardo elegante, delicato e mai inquisitore, quello della macchina da presa, uno sguardo che ha fiducia nelle parole dell’altro, che sviluppa un legame affettivo con l’altro, che non giudica, ma “ascolta”, nel senso più puro della forma documentaria.