È noto come l’inglese, a differenza dell’italiano, distingua con una piccola sfumatura il termine “casa” in house, l’edificio concreto in cui vivere, e home, il concetto astratto, applicabile a ogni luogo e riferito al sistema di affetti ad esso correlati. Mobile Homes, primo lungometraggio di Vladimir de Fontenay, già passato alla Quinzaine des réalisateurs di Cannes, è interamente giocato sullo scambio e la scorretta interpretazione delle due sfumature.
Ali, ragazza-madre, suo figlio Bone, di otto anni, e il suo compagno vivono infatti una vita alla costante ricerca di un posto da poter chiamare “casa”: occupano temporaneamente abitazioni e appartamenti altrui, quando i proprietari sono assenti, spostandosi dall’uno all’altro, ma avendo sempre come sogno la possibilità di avere quattro mura da considerare proprie. Un’ossessione che, per Ali e il fidanzato, mossi dall’infantile convinzione che un tetto sopra la testa basti a risolvere ogni problema, diviene anche il fine che giustifica ogni comportamento – il tradimento, il furto, lo spaccio, il contrabbando, le scommesse.
E mentre il pensiero della “house” si fa via via più fisso, la “home” e le sue relazioni madre-figlio, padre adottivo-figlio, uomo-donna, si perdono in una spirale di disfunzionalità. L’assenza di rapporti sani, già accennata fin dalle prime scene attraverso una sessualità usata come unico mezzo di connessione, aumenta fino a sfociare in violenza fisica e abbandono. A poco servirà, del resto, anche l’occasione, dovuta a un fortuito caso, che Ali e Bone avranno di trovarsi a far parte di una comunità di “case mobili”. Ancora una volta, infatti, la giovane madre, incapace di andare oltre la convinta necessità di possedere uno di quegli edifici privi di fondamenta, trasportabili su camion (e perciò anche facili da rubare), non coglierà fino in fondo l’importanza delle relazioni intessute con gli altri e quelle implicazioni che anche il titolo stesso del film vorrebbe invece suggerirle.
Scegliendo il solito vecchio schema, finirà quindi per distruggere la casa mobile: la “house”, fatta di legno, carta da parati e mobili, si sfascerà tra le acque del lago e lei, ormai certa di non poter più provvedere a realizzare il sogno e come sempre incapace di scindere le due sfumature, metterà fine anche agli affetti. È al bambino, infatti, e non a lei, che de Fontenay sceglie di affidare il compito di ribaltare la situazione – nell’ultima scena del film – non rispettando il volere della madre e dimostrandole – con un semplicissimo abbraccio – che quel che conta è la “home”, una “home” che, in fondo, può anche essere mobile, priva di radici e di pareti.
Andando oltre il cortometraggio omonimo del 2013, di cui Mobile Homes è una rielaborazione, il regista francese sceglie quindi di approfondire il tema legato alla concezione di “casa”, esplorando più a fondo i personaggi, dando loro un vissuto e dei modelli (o un’assenza degli stessi). Non manca tuttavia, a tratti, la sensazione che il bagaglio personale narrato per giustificare e rendere più comprensibili alcune scelte sia eccessivo e fine a se stesso da un lato – lo spaccio, i combattimenti clandestini coi galli – e ancora troppo poco concretamente votato a dare tridimensionalità ai personaggi, i quali restano, nessuno escluso, estemporanee apparizioni prive di un passato.