* Testo estratto dal saggio contenuto nel Catalogo generale del Bergamo Film Meeting 2018.
Uno sguardo complessivo sulla carriera ormai ventennale di Stéphane Brizé, fatta di due cortometraggi e otto lungometraggi (l’ultimo, Un autre monde, al momento di scrivere è in fase di post-produzione), suggerisce immediatamente l’esistenza di un “progetto narrativo” (per non dire artistico) molto chiaro che, di film in film, si è precisato e ampliato. Qualcosa di simile a una “commedia umana”, certo ben più circoscritta rispetto all’impresa letteraria di Balzac (per inciso: finora l’unico film in costume Brizé lo ha tratto da Maupassant), con la quale tuttavia sembra condividere la volontà realista e, soprattutto, civile di piegare l’arte e le sue finzioni a strumento di testimonianza e, insieme, di rivelazione, in un equilibrio delicatissimo, che è di pochi cogliere e poi sostenere senza cedimenti, tra documentazione sociale e scavo sentimentale, racconto storico (“di costume”) e indagine psicologica ed emotiva.
Un progetto che è già chiaramente enunciato fin dal primo lungometraggio del regista, Le bleu des villes (1998), non un semplice “debutto” (dopo due soli cortometraggi, Bleu dommage, 1993 e L'œil qui traîne, 1996) ma, piuttosto, un primo e già compiuto saggio di quelli che saranno il raggio d’azione della curiosità registica di Brizé e i mezzi – lo “stile” – della sua ricerca. In particolare, la storia dolcissima e struggente di Solange, interpretata da Florence Vignon, abituale collaboratrice di Brizé sia in qualità di sceneggiatrice che di attrice, rivela già come l’umanissima commedia di Brizé non prenda mai le mosse da un interesse “sociologico” o, peggio ancora, “didascalico” verso spazi sociali problematici e individui marginali, almeno se misurati con il metro esigente dello “spettacolo” cinematografico: ad attirare Brizé è sì la normalità spesso faticosa di uomini e donne “periferici”, esistenze ristrette e desideri semplici, ma lo sguardo con cui li racconta – a differenza di quanto accade talvolta nel cinema di altri registi europei rubricabili sotto l’insegna polimorfa di “cinema del reale” e non meno attratti dal confronto diretto e ruvido con una quotidianità anti-spettacolare (i primi nomi che vengono in mente sono, per restare in area francofona, i fratelli Dardenne e Laurent Cantet) – non arriva mai a trasformali (un po’ tradendoli) in una testimonianza drammatica, in un archetipo sociale, in un emblema della storia contemporanea. L’esemplarismo, sia esso politico o drammatico, non appartiene al cinema di Brizé (a tal punto che in patria c’è qualcuno che lo rimprovera di non essere sufficientemente “politico”): questione, delicatissima, di distanza, che non è mai né quella ravvicinatissima ed epidermica del cinema testimoniale, né quella distante e impassibile della produzione semi-documentaristica. Questione, più esattamente, di posizione, morale e insieme filosofica, dello sguardo e della macchina da presa, che in Brizé è sempre giusta, ma nel senso che è sempre (o dà l’idea di essere sempre) l’unica possibile.
[…] La commedia umana del regista non consiste mai nel buttare in trama e in genere l’esperienza umana; al contrario, tutto il suo cinema si caratterizza per un ascolto paziente, a giusta distanza (aggiungiamo a quanto già detto: mai cinico, mai sadico), di movimenti che sono, al tempo stesso, evoluzioni della materia – cose, corpi – e intricati percorsi soggettivi, manifestazioni tangibili e storie segrete, evanescenti. Una capacità di ascolto e sguardo in cui gioca un ruolo fondamentale l’esperienza teatrale del regista, che lo ha evidentemente allenato ad aspettare i suoi attori, per cogliere anche (soprattutto) quello che nascondono, sentono e pensano, così da trasformare ciò che all’apparenza potrebbe sembrare una concessione al “realismo” dell’interpretazione nel punto di partenza di un’indagine, sempre imprevista, dell’azione interiore: le “poche cose” che accadono nei film di Brizé, gli intrecci spesso semplici e dritti, rappresentano, in fondo, il veicolo di un racconto ben più potente e complesso, quello dell’intimità delle sue donne e dei suoi uomini normali, un’intimità dura, combattuta, alla quale il cinema offre uno strumento – l’unico possibile – di realizzazione.
In questo senso, Una vita - Une vie non rappresenta uno “strappo” stilistico ma, al contrario, il (provvisorio) punto d’arrivo di un “metodo” ormai raffinatissimo, l’evoluzione naturale di un cinema fondato, al tempo stesso, su un’osservazione intensa e un ascolto concentrato della realtà.
Ascolto e sguardo, dunque. E l’attesa degli attori. Ascoltarli, guardarli. E guardarli, soprattutto, recitare, se vogliamo davvero evitare le trappole del “cinema del reale”. La recitazione è per Brizé non un “affare di stato” ma il solo sentimento possibile della sua “commedia umana”. La giusta distanza di questo cinema è anche la distanza che separa l’interprete dal suo “sfruttamento”, che per il regista francese non è accettabile. Lo si capisce bene dai suoi film, uno dopo l’altro, al di là dei singoli ruoli: come dimostra il superlativo Vincent Lindon in Quelques heures de printemps (2012), Mademoiselle Chambon (2009) e La legge del mercato (2015), più che una “questione naturale” recitare è sapersi muovere proprio nello spazio della “giusta distanza” determinata dal regista e dalla macchina da presa.