Se si dovesse spendere un solo nome per indicare l'autore più significativo dello spirito borghese parigino del secolo scorso, ebbene questi non potrebbe che essere Alexander-Pierre George Guitry, detto Sacha (nato a San Pietroburgo nel 1885 – ma non inganni la località russa: suo padre era un francesissimo attore teatrale, l'allora celebre Lucien – morto a Parigi nel 1957).
L'omaggio che gli tributa la 42ma edizione del Bergamo Film Meeting (9 – 17 marzo) ci fa così compiere un gustosissimo viaggio a ritroso nel tempo, alla ri-scoperta di un autore tanto rappresentativo in patria al suo tempo, tanto prolifico, e oggi fatalmente impolverato dall'oblio. Proiettati all'Auditorium, ecco 11 film dal 1935 al 1952, da Bonne Chance! a La vita di un onest’uomo, passando per titoli significativi della sua densa filmografia, tra quelli più fiction e magari meno suggestionati dalla sua inclinazione per la glorificazione nazionale: il fondamentale Il romanzo di un baro, 1936, il teatrale Mio padre aveva ragione, 1936, Le mot de Cambronne, 1936, Faisons un reve, 1936, Erano nove celibi, 1939 (uno dei suoi più noti anche da noi), Donne moi tes yeux, 1943 (uno dei suoi rarissimi film quasi drammatici, in cui fa recitare per la prima volta la sua terza moglie, Geneviève de Séréville), Le comedien, 1948 (la biografia del padre Lucien), Le diable boiteaux, 1948 (in cui indossa i panni di Talleyrand), Ho ucciso mia moglie, 1951 (interpretato dal sommo Michel Simon).
Figlio del teatro, al teatro principalmente dedicò vita e lavoro, non rinunciando mai alla “joie de vivre” e alla passione mai venuta meno per il gentil sesso (quattro mogli, senza praticamente soluzione di continuità dal 1907 al 1957, tutte sue compagne di scena e di schermo, come ad esempio la celebre cantante Yvonne Printemps o la frizzante e maliziosa Jacqueline Delubac, sua partner in alcune delle sue più riconosciute opere). In una vita tutta sotto i riflettori, una sola zona d'ombra: il sospetto di collaborazionismo coi tedeschi, per cui scontò due mesi di prigione ma che un successivo processo riabilitò a 360 gradi.
Scrisse 64 opere teatrali (commedie o commedie musicali), alcune riportate su schermo per 25 regie quasi tutte da lui sceneggiate e interpretate. Fu autore di un romanzo di successo, Il romanzo di un baro che divenne anche uno dei suoi film più belli e significativi nel 1936, più una autobiografia con prefazione di Truffaut (che evidentemente apprezzava, quando era il caso, anche il cinema di nonno e papà).
Tutte, ma proprio tutte, erano pervase da quel suo spirito, anche accentratore, da capocomico-direttore d'orchestra, fatto di conservatorismo non privo di ironia, patriottismo dissimulato dal gusto per la facezia, dal buon senso (o senso comune) solo appena ammantato dalla malinconia e da un cinismo che smussava ogni eventuale sospetto di tragedia (si veda la perfidamente allegra amoralità di Il romanzo di un baro, Erano nove celibi o Ho ucciso mia moglie): era insomma l'alfiere perfetto per una borghesia autocompiaciuta di sé, patriottarda e fedele alle sue regole, amante del teatro più boulevardier di cui fu assoluto maestro e punto di riferimento.
Peraltro il cinema per lui fu anche qualcosa da prendere molto seriamente, come la fedeltà al suo pubblico. Le sue commedie, seppur molto scritte e “teatrali” nella recitazione e sempre ben strutturate intorno a temi etici poco plumbei e da trattare con squisitezza e humour, non rifiutavano mai l'inventiva visuale, la sperimentazione, la specificità del mezzo. In Il romanzo di un baro ad esempio riesce arditamente a raccontare con voce fuori campo quasi tutta la storia, senza perdere in colorita tensione narrativa.
Non si tolse però mai (o non volle) l’evidente filiazione dalla machinerie teatrale, con la venerazione per il mestiere (nei titoli di testa quando si era soliti elencare interpreti e personaggi, spesso Guitry faceva usare la formula “creatore del personaggio di...”). Del resto la sua recitazione sempre impeccabile, da mattatore consumato, è quella del teatro sapido d'antan, con dizione perfetta e velocissima, ammiccamenti significativi e una gesticolazione quanto mai ampia e vivace ad accompagnare ogni immancabile battuta...
Già le battute: le sue opere ne sono infarcite, fatte per rallegrare e solleticare il pubblico. La malattia? “Ammalarsi ogni tanto fa bene perché se la scampi ti senti rinato”. Le donne? “E' magnifico avere entrambi 20 anni, ma vedrai che differenza corre tra un uomo e una donna di 50 anni. D'altronde le donne non hanno età o sono giovani o sono vecchie. Da giovani ci tradiscono, da vecchie non vogliono essere tradite!”. La vita? “Eh, non c'è niente di meglio” (tutte prese da Mio padre aveva ragione). La ricchezza? “I soldi non fanno la felicità, dicono. Senza dubbio stanno parlando dei soldi degli altri”.
Con i suoi aforismi spiritosi e arditi nel loro luogocomunismo, ha costruito, in decenni di carriera, argomenti di conversazione, venerazione e riflessione per un ceto (maschile) dirigente e persino ingenuo nella sua dominante centralità, ma anche un proprio (e voluto) monumento artistico di sociologia e filosofia dei costumi di assoluto valore non solo storico, in fondo non dissimile (fatte le proporzioni) dal corpus letterario di uno dei suoi idoli dichiarati: Honoré de Balzac e il ciclo de “La Commedia Umana”. Del resto lo omaggia proprio ne Il romanzo di un baro, quando vediamo il protagonista prendere da una pila e divorare uno dopo l'altro i romanzi che formano il progetto-capolavoro del poderoso narratore e fustigatore della Parigi dell'800.