Nonostante i lineamenti delicati, i capelli biondi e la carnagione pallida, Vicky Krieps (l’attrice lussemburghese molto attiva nel cinema europeo e anglo-americano che di recente ha dato corpo e girovita a una volitiva Sissi nel Corsetto dell’imperatrice di Marie Kreutzer) non ha mai avuto un viso rassicurante, nemmeno quando docilmente cuciva e cucinava – al veleno – per il celebre stilista Reynolds Woodcock nel Filo nascosto di Paul Thomas Anderson. In questo The Wall, il nuovo film di Philippe Van Leeuw, l’autore di The Day God Walked Away e Insyriated, Krieps lavora soprattutto sui tratti disturbanti che una fisionomia come la sua può celare, o rivelare. Lavora di fino, quasi sempre in scena e spesso in primo o primissimo piano: quasi impercettibili irrigidimenti dei muscoli, un improvviso sussulto delle labbra, quei capelli, tirati all’indietro in un minuscolo codino con morbosa precisione. Lo stesso vale per il suo corpo, più che altro rivestito della divisa degli agenti di pattuglia: mani sulla pistola o sui fianchi, postura imperiosa, veloce nei movimenti ma poco mobile nelle intuizioni. Sempre rigida. Non c’è armonia nel personaggio di Jessica Hamley, agente in servizio sul confine tra gli States e il Messico, al controllo di traffici di droga e, soprattutto, di transito di migranti. Più ligia al dovere di tutti i suoi colleghi, con eccessi di zelo maniacale, che la portano ad agire anche quando è fuori dalla sua zona o fuori servizio e che la conducono inevitabilmente e (quel che è peggio) “meccanicamente” a un gesto estremo. Un colpo, un morto.
Van Leeuw affronta il paesaggio desertico tra Arizona e Messico e il famigerato, ideale Muro trumpiano (concetto demente del quale dovremmo preoccuparci universalmente) con il tramite di questo personaggio scomodo, una donna sgradevole fin dalle prime, intime scene nella quale la vediamo in azione e sgradita anche a superiori e colleghi, eppure sempre, in qualche maniera, umana. Mai una caricatura, mai nemmeno sopra le righe, nonostante certe posture “da poliziotta”, facilmente leggibili come stupida autodifesa femminile in un contesto maschile. Merito della recitazione di Krieps, che in certi momenti privati, con amici e famiglia, imprevedibilmente si addolora, si addolcisce, anche se poi non riesce mai a venire a patti con gli aspetti contraddittori della sua personalità, eterodiretta dalla fede, politica e religiosa, da quella rigidità autoimposta che cancella sfumature e rifiuta le disarmonie implicite nella natura di ciascuno. The Wall finisce così per essere soprattutto lo studio di un comportamento patologico, ad alto tasso di pericolosità, mai messo in discussione da un soggetto esente da dubbi. Qualcosa di connaturato, talmente incistato in una cultura da essere diventato, per parte della popolazione, “normale”. Un film non perfetto, ma efficace nel suo assunto e che trova un notevole antagonista nel personaggio interpretato da Mike Wilson: Jose Edwards, il vecchio nativo americano del popolo Tohono O’odham che insieme al nipotino percorre avanti e indietro il territorio di “the border”, seminando taniche di acqua e viveri per i disgraziati che lo attraversano, trasportandoli in luoghi più sicuri, soccorrendoli. Impassibile, nel suo silenzio, nella sua pazienza vero simbolo dei diritti della nazione americana.