Non sembra florido Capao Leste, quartiere di San Paolo in Brasile: palazzi ammucchiati gli uni sugli altri, muri e strade sconnesse, cavalcavia, antenne, ferrovie. Eppure ha una giovane squadra di pallavolo femminile notevole, composta da adolescenti con dichiarate simpatie LBGTQ: la più brava è Sofia, battitrice diciassettenne che vive con il padre apicoltore e che scopre di essere incinta, dopo un rapporto occasionale con un ragazzo del quale non sappiamo nemmeno il nome, “quello con la moto” dice una sua amica. Contemporaneamente, le viene offerta una borsa di studio sportiva in Cile. E Sofia decide che vuole abortire. Ma l’aborto, nel “moderno” Brasile di Bolsonaro, è illegale. Che fare? Comincia così il viaggio di Sofia, spesso in primo piano e spesso intenta a martoriare il suo corpo lungo con ginnastica pesantissima (per procurarsi un aborto spontaneo), prima ingannata da un consultorio fasullo il cui unico intento è far desistere le donne dalla loro decisione (e, in qualche maniera, “schedarle”), poi reduce da un inutile viaggio in Uruguay, dove potrebbe abortire ma manca il tempo per dimostrare la sua cittadinanza uruguayana (lo era la mamma morta). Il tempo, ecco il nemico principale di Sofia, che fortunatamente è circondata dalla solidarietà delle compagne di squadra.
Levante comincia come un film “tra ragazze”, piene di colori e di energia, spudorate ed entusiaste, in tutto e per tutto un team, non solo sportivo, ma umano, giocoso e, lungo tutto l’arco dell’odissea silenziosa di Sofia, ostinatamente complice. Poi, si tinge di toni più intimi e oscuri: i brevi, secchi stacchi al nero che punteggiano le successive scelte della protagonista, la minacciosa insistenza con cui i molti integralisti locali (informati e aizzati dall’infermiera del presunto consultorio) cominciano a premere su tutti quelli che circondano Sofia s’intrecciano con il campionato di pallavolo, che comunque deve andare avanti. È sempre una questione di tempi: e c’è un tempo giusto per ogni cosa, persino per fare o non fare un figlio. Così una dramedy post-adolescenziale al femminile sfiora il thriller e s’intinge decisamente nella politica, nella rivendicazione di diritti che troppi anni di oscurantismo hanno reso impraticabili (e comunque, quanto ad azioni e pressioni violente di fondamentalisti nemmeno gli Usa stanno troppo bene). All’esordio nel lungometraggio, la regista Lillah Halla (anche autrice della sceneggiatura insieme a Maria Elena Moràn) ha impiegato sette anni per riuscire a realizzare il suo progetto, con partner internazionali, dopo che il finanziamento fu bloccato in Brasile nel 2016. E ci tiene a sottolineare il merito “collettivo”, il lavoro e l’impegno di gruppo, fondamentali nella vicenda che racconta come nel cinema in generale. Questa testarda energia si riflette nel film e lo anima, fa dimenticare certi momenti forse superflui e imprime una forza inaspettata a certi stereotipi, visivi (il miele che cola dalle arnie del padre) e narrativi (il ruolo dell’allenatrice della squadra). Levante è attuale, non banale e parla una lingua viva.