Un film talmente grande che per riuscire ad afferrarlo tutto non bastano dieci visioni, figuriamoci per scriverne… 1957, Bergman non ha ancora quarant’anni quando realizza quest’opera, che sta a metà della sua filmografia e ha le sembianze di un testamento spirituale. Vita, morte, ricordi, rimpianti, tormenti, insicurezze. È un film di bilanci esistenziali Il posto delle fragole, ma anche (tanto) altro.
Una riflessione sulle occasioni perdute, prima di tutto: fra i personaggi più autobiografici di Bergman il vecchio professor Borg è un uomo che ha passato la vita a osservare gli altri e lasciarsi scorrere il tempo addosso, rinunciando ai rapporti sociali e trascurando quelli familiari. I personaggi che gli stanno attorno nel film agiscono, scelgono, vivono: un privilegio che lui non si è mai concesso.
E poi è un road movie in un’epoca in cui i road movie (quasi) non esistevano: il viaggio non è solo una metafora dell’esistenza, ma un percorso ineluttabile che fa rima con la morte, un sentiero che non si può non intraprendere e non si può interrompere, nemmeno prolungando le tappe o moltiplicando le soste (come quella al posto dove crescono le fragole, un luogo che svanisce, è offuscato dalla nebbia dei ricordi, forse non è mai esistito).
E soprattutto è un horror: le sequenze oniriche sono esperienze di terrore indelebili. L’uomo senza volto, il protagonista che osserva il proprio cadavere, la risata della donna morta atterriscono e terrorizzano più di qualsiasi horror mai girato. E chi lo sapeva che Bergman potesse farci tanta paura?