Il sodalizio metafisico. Racconta spesso Aldo Tassone di un progetto sulla Commedia dantesca che avrebbe coinvolto Bergman, Fellini e Kurosawa. Per ovvie ragioni, al primo sarebbe toccato il Paradiso, al secondo il Purgatorio, al terzo l’Inferno. E questo non è che un indizio del rapporto molto stretto, quasi simbiotico, che intercorse soprattutto tra Bergman e Fellini, le cui date di nascita e i corrispondenti centenari distano appena di due anni. Ma ancora più brevi si fanno le distanze quando parliamo dell’universo circense, che notoriamente viene assegnato come spazio vitale e creativo a Fellini, da sempre. La strada, con il suo reiterati spettacoli appunto di strada, è un omaggio continuativo al modello circense. Seguiranno negli anni i circhi o i loro surrogati in Giulietta degli spiriti, I clowns, Il Casanova. Ma La strada nel 1954 è di un anno successivo a Una vampata d’amore, uscito nel 1953, che probabilmente fa da apripista, assieme a Il circo di Charlie Chaplin, oltre quindici anni prima, ad un’idea di messa in scena mutuata dai numeri slegati del circo, dove a saldare il discorso immaginifico è il direttore con la sua voce stentorea, amplificata dal megafono. In questi casi, straordinariamente d’autore, questo direttore è il regista onnipotente, il cineasta che si compenetra con la sua opera, rielabora la propria vita su misura per le immagini in movimento e lo schermo. Fellini e Bergman, Bergman e Fellini, due giganti inseparabili della storia del cinema, che ebbero modo volentieri di eleggere Roma, la Roma circense assurta a territorio felliniano per eccellenza, a luogo di incontri, avvolti in un alone di mistero, di suggestione, di condivisione reciproca di un unico campo magnetico, votato all’arte totale. Un’arte che parte da un’isola, Fårö, o da una riviera, quella riminese per trasfigurarsi all’infinito e stabilire in tempo (ir)reale un sodalizio mai trasformato in un film comune, ad episodi, materialmente partecipato. Ma Fellini e Bergman non avevano bisogno di firmare assieme un film, erano già dentro questa dimensione cinematografica ad oltranza. Come le figure angeliche, immateriali, evocate da Dante nel De vulgari eloquentia, comunicavano senza quel tramite materiale e umano costituito dal linguaggio comune. Alle intelligenze pure il linguaggio non serviva, né le parole o la scrittura. C’erano già le immagini, le opere, le reciproche fantasie che trasmigravano da uno schermo all’altro, da una porzione di mondo all’altra, a tenerli in costante contatto (meta)fisico.