Ancora due donne unite, divise, distanti, complementari. Eurídice e Guida, sorelle legatissime nella Rio de Janeiro dei primi anni ’50, come Iya e Masha, le due infermiere nella Leningrado del 1945 di Beanpole. Ancora la storia passata fatta vivere sullo schermo attraverso l’effetto che i dettagli, i colori, l’ampiezza dello spazio e la concretezza del tempo hanno sulla vita dei personaggi. Come se al cinema, in crisi come forma di discorso che crea mondi e immaginari, non fosse rimasto altro che la figura umana, il suo corpo, il suo desiderio.
Case, strade, ambienti sociali, oggetti, parole, lettere, scrigni: tutto in A Vida Invisível de Eurídice Gusmão, vincitore del Certain regard, inatteso e bellissimo film che Karim Aïnouz ha liberamente tratto dall’omonimo romanzo di Martha Batalha (in Italia pubblicato da Feltrinelli con il titolo Eurídice Gusmão che sognava la rivoluzione), racchiude e riverbera la storia triste delle due sorelle divise dalla scelta di una delle due di allontanarsi dalla famiglia e unite da un amore intenso e lungo un’intera vita.
È fin banale riconoscerlo, ma il melodramma non si fa telenovela o semplice riproposizione di modelli esauriti solo quando, alla maniera di Sirk, di Fassbinder, di Wong Kar-wai – tutti modelli che Aïnouz ha bene in mente, e non solo da questo film – porta in superficie, in forma visibile, la passione e l’energia del pianto. Il “testo del mutismo” che il cinema ha ereditato dal teatro, la tendenza cioè a dare alle passioni una forma evidente ed esibita, lascia dietro i propri colori intensi, dietro la grana spessa della pellicola e le parole scritte in una lettera, l’intensità dei sentimenti che l’hanno generato. Ogni cosa è ravvivata dal suo opposto, il silenzio nasconde l’urlo, la frustrazione la liberazione, l’assenza la gioia dell’incontro, il corpo il suo fantasma, le strade parallele la possibilità di un incontro. Nella sospensione del destino delle due protagoniste sta racchiusa l’intensità continua del film, la mancanza di cadute di ritmo, la calibrata precisione di inquadrature mai fuori tempo, mai di troppo, eccessive nella ricchezza della messinscena, calibrate nella loro successione.
Il percorso di Guida e Eurídice è raccontato in parallelo, una storia di separazione dopo l’iniziale simbiosi. Nel 1951 le due sorelle hanno poco più di diciotto anni, vivono insieme e si adorano, ma da qualche parte nelle alture boscose alle spalle di Rio i loro fantasmi, le anime di come saranno e di come sono state, si chiamano a vicenda senza trovarsi, si perdono ciascuna nella propria vita. Sospese nella solitudine dell’anima, Guida e Eurídice si incontrano solo nel regno dell’illusione: nelle lettere che la prima scrive alla seconda, sperando che in qualche modo possa leggerle, e nei pensieri che la seconda, abbandonata eppure mai rancorosa, dedica per tutta la vita alla prima.
Guida partorisce, sopravvive, lavora come operaia, ripudiata dal padre trova una famiglia nuova grazie all’ex prostituta Filomena che accoglie lei e il figlio nella sua casa; Euridice sposa invece l’uomo sbagliato per non contraddire i genitori, ritarda la gravidanza per iscriversi al conservatorio, partorisce, vince comunque il concorso di pianoforte ma crolla, impazzisce, brucia tutto. Sole, perdute e sfruttate in una società pesantemente maschilista, dentro il tempo che passa inesorabile, dal ’51 fino alla fine del decennio e poi dei giorni, le due sorelle costruiscono separatamente la loro vita concreta – che Aïnouz carica meravigliosamente di dettagli, di personaggi secondari, di linee narrative tratteggiate per ellissi (il tumore della madre e quello di Filomena, il senso di colpa del padre, l’amore e la violenza ottusi del marito di Eurídice) – e insieme quella invisibile, immaginata, sognata, ovviamente mai raggiunta.
Nella misura della distanza fra questi elementi – la realtà e il desiderio, la delusione e l’attesa, il silenzio e la voce, l’invocazione e la risposta, le parole nel vuoto e le parole che rimangono sulla carta – riverbera l’intensità della storia raccontata da A Vida Invisível de Eurídice Gusmão. Perché piangere al cinema è una forma di riconoscimento, una speranza tradita sempre viva.