Alla fine di Mektoub My Love: Canto Uno avevamo lasciato il protagonista Amin – il ragazzo parigino originario di Sète che durante l’estate tornava nella sua città natale e veniva “accecato” e invaso dal desiderio di vita del suo gruppo di amici – andarsene per la spiaggia con Charlotte, l’altra ragazza che non era riuscita a integrarsi nel gruppo in quell’estate, respinta da una delusione d’amore. Amin aveva passato l’intero film a osservare, più che a partecipare a quell’orgia di vita, di corpi, di sensazioni che scorrevano di fronte ai nostri occhi, in una specie di raddoppiamento sullo schermo del ruolo passivo dello spettatore. Munito della sua macchina fotografica, della sua cultura metropolitana parigina, della sua passione per il cinema, Amin sembrava mettere in scena il classico dualismo che ha da sempre caratterizzato il cinema di Kechiche: quello del rapporto escludente tra la vita e lo sguardo.
Viene detto anche in una scena del nuovo Mektoub My Love: Intermezzo, che del primo rappresenta, più che una continuazione, una sorta di spin-off: «Non guardare!», dice una ragazza ad Amin in discoteca, «vivi». Perché la vita nel cinema di Kechiche è sempre in un rapporto di opposizione al desiderio di guardarla. Come se lo sguardo dovesse in qualche modo sempre uccidere il suo oggetto, o comunque non potervi mai partecipare.
Chi oggi si scandalizza per questa passione per una presunta “oggettivazione” dei corpi femminili, ancora una volta generosamente mostrati in questo film – come David Ehrlich su «Indiewire» – dovrebbe andarsi a vedere i primi film di Kechiche, dove questo tema era già ampiamente presente. In La schivata, il ragazzino Krimo desiderava, guardandola da fuori, la compagna di classe Lydia, protagonista nella recita scolastica, e nel tentare di sedurla provava a mettersi al centro del quadro (per poi inevitabilmente fallire e rimanere da solo alla fine del film). Anche Amin desidera i corpi che la sua macchina fotografica scruta da lontano, ma non fa mai il passo ulteriore di superare la soglia di separazione della visione. Non riesce a mettersi a ballare e a godere dei corpi che pure si trovano di fronte a lui.
È un fantasma da sempre presente nel cinema (e più in generale nell’inconscio collettivo): quello di poter guardare senza essere visti; di disincarnare il proprio sguardo fino a renderlo senza corpo e senza sostanza. E quindi poter andare in qualunque angolo del mondo senza essere visto. Amin è così: guarda ma non vuole entrare nel quadro, nonostante le ragazze che vorrebbero sedurlo e gettarlo nell’orgia dionisiaca di quei corpi, in questa seconda parte, siano ancora più della prima.
Nella lunghissima sequenza di almeno due ore e mezza in discoteca, vi è una scena in cui Amin è sedotto da Marie, la ragazza parigina appena conosciuta dal gruppo in spiaggia: lei si mette davanti a lui, gli accarezza i capelli, gli bacia il collo, gli lecca le orecchie. La sua risposta è quella di rimanere rigido e fermo, senza mai incrociare il suo sguardo, e semmai guardare oltre dove ci sono le altre ragazze che ballano sul cubo. Il suo desiderio insomma è chiaro: non sta dalla parte del corpo e del reale, ma in quello della visione e dell’immaginario.
Questo film, che è appunto un lungo intermezzo, è costituito di fatto da una sola, lunghissima sequenza in discoteca e racchiuso da due brevissime scene che vedono Amin con Charlotte. Nella prima Amin guarda l’amica attraverso una macchina fotografica: lei è nuda, lui la “possiede” attraverso lo sguardo; nella seconda i due sono a letto nudi, come se avessero appena fatto l’amore. Quello che sta in mezzo – dal punto di vista strutturale più che diegetico, il loro rapporto sessuale – è invece una lunghissima scena, prima al mare e poi in discoteca, dove Kechiche radicalizza ancora di più la sua idea di erotizzazione dello sguardo.
In una specie di esercizio libero di sguardo desiderante posto sui corpi femminili delle protagoniste del film – e lo sguardo, ci dispiace per i molti, troppi, moralisti di oggi, ma non può che essere caratterizzato dalla dimensione “parzializzata” del corpo – vediamo messo in scena una sorta di amplesso della visione.
D’altra parte Amin la sua scelta l’aveva già presa: è lo sguardo ad aver vinto sulla vita. E questo è il risultato.