È noto come il filosofo francese Gilles Deleuze – che fu tra quelli che maggiormente rifletterono sul concetto filosofico di nomadismo – odiasse viaggiare e a malapena mettesse piede fuori dal suo appartamento di Parigi. Essere nomadi infatti non vuol dire tanto mettersi costantemente in viaggio, come ormai fa qualunque manager in carriera che si sposta per aeroporti e uffici tutti uguali in giro per il mondo, quanto essere in una posizione di soglia riguardo al posto dove ci si trova: essere cioè fuori, per condizione o per scelta, dal posto che ci verrebbe assegnato.
Il regista palestinese Elia Suleiman, ha da sempre provato a riflettere sullo status nomadico e interstiziale dell’esiliato, trovandosi lui stesso in una condizione di esilio e di appartenenza spuria a una nazione. La Palestina infatti, com’è noto, non esiste in quanto stato-nazione, essendo soltanto una regione a statuto incerto e costantemente sottoposto a rinegoziazioni e conflitti, all’interno dell’occupazione dello Stato d’Israele. Ma Suleiman è in una doppia condizione di esilio, perché anche all’interno della comunità palestinese fa parte non della maggioranza islamica, ma della minoranza cristiano-ortodossa.
Questo lo ha portato, fin dal principio della sua carriera cinematografica all’inizio degli anni Novanta, a riflettere sulla specificità della condizione palestinese con una modalità estetica affatto originale. Colonizzati da uno stato costruito sul più grande crimine della storia dell’umanità – quindi vittime delle vittime per eccellenza – e sparsi in giro per il mondo senza una vera e propria casa (i palestinesi vivono, nella maggior parte dei casi, fuori dal proprio paese), essere palestinese è diventato negli anni sinonimo di una condizione strutturale di esilio e di non-appartenenza. A fronte però di un’abitudine del cinema politico e militante di usare gli strumenti della denuncia, del realismo o, peggio ultimamente, del vittimismo, Suleiman si è inventato (anche se forte è il debito con Beckett, Tati e Keaton) un registro comico grottesco, fondato sul nonsense, la coincidenza degli opposti e la comicità dell’assurdo. I suoi primi film (tra cui ricordiamo Intervento divino del 2002 e Il tempo che ci rimane del 2009) mostravano la resistenza e l’appoggio alla causa palestinese attraverso un mood lirico, grottesco, ironico, a volte persino con tratti di malinconia e disperazione.
It Must Be Heaven, che arriva a dieci anni esatti dall’ultimo lungometraggio, prova però in questo senso a fare un passo ulteriore. Senza una vera e propria trama e con una traccia di dialoghi molto esile, il film mostra Elia Suleiman stesso (come spesso accade nei suoi film) andare in giro per il mondo e osservare alcuni episodi di assurdità quotidiana, con spesso (anche se non sempre) a tema la guerra, il controllo della polizia, e in generale l’atmosfera securitaria degli ultimi anni. Quella sorta di atmosfera grottesca e senza senso che caratterizza la vita quotidiana di un palestinese durante l’occupazione, si generalizza per diventare qualcosa che riguarda il mondo intero. Come ha dichiarato il regista stesso, se nei film precedenti la Palestina poteva assomigliare a un mondo in piccolo, questa volta è il mondo stesso ad assomigliare sempre più (e sempre più inquietantemente) alla Palestina.
La condizione palestinese è quindi una condizione potenzialmente universale, che non riguarda solo una piccola e sfortunata porzione di mondo, ma una sorta di modalità generalizzabile di non-appartenenza a questo mondo. Suleiman infatti si presenta come un uomo solo, sempre zitto e in una condizione di ingenuo stupore nell’approcciarsi agli eventi che vede di fronte ai propri occhi. Una Parigi deserta e popolata solo da carrarmati, da qualche turista giapponese e da un gruppo sparuto di animali (che vengono controllato e inseguiti con zelo dalla polizia come se fossero dei criminali), una New York ossessionata dalle armi; e una Nazareth sempre più sull’orlo dell’impazzimento contribuiscono a creare l’impressione che il mondo intero stia ormai normalizzando una logica di costante emergenza e psicosi.
E non è forse un caso che in questa estetica l’essere palestinese finisca per assomigliare proprio a un’identità di sottrazione dell’identità: come se fosse da quel punto prospettico che si potesse adottare una prospettiva nomade, anti-nazionalista, e anti-securitario. Proprio come nella storia sempre fu l’identità ebraica.