Concorso

Die My Love di Lynne Ramsay

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Il bosco è in fiamme, il calore e il rumore insopportabili. E dire che un attimo prima eravamo sulla porta e poi nella cucina di una vecchia, grande casa di campagna, un po’ malconcia ma, una volta risistemata, di quelle che dovrebbero rappresentare, nell’inconscio collettivo, un porto sicuro, il luogo nel quale mettere su famiglia, riunirsi con parenti e amici, avere un cane, un  gatto e magari un cavallo nero, tenere il volume della musica alto quanto si vuole (non come a New York) e magari invecchiare serenamente. Ma la musica è altissima, il cane abbaia troppo, i parenti più vecchi se ne sono andati malamente  o sono diventati sonnambuli a causa dei traumi, l’ispirazione, il sesso, i sogni di carriera e felicità sono svaporati, sempre meglio avere un fucile sottomano.

Il bosco è in fiamme, e nessuno può più spegnerle. Die My Love, quinto lungometraggio della regista scozzese Lynne Ramsey (il secondo girato negli Stati uniti dopo A Beautiful Day), adattato dalla stessa Ramsey con Edna Walsh e Alice Birch dal romanzo omonimo della scrittrice argentina Ariana Harwicz, è un viaggio in un incubo perpetuo, una lunga soggettiva malata, dove ricordi, desideri inappagati, incidenti momentanei, persone vere o immaginate si sovrappongono e si mescolano senza soluzione di continuità. Senza segnali precisi che indirizzino lo spettatore in una direzione immaginaria piuttosto che in un’altra.

Se all’inizio si ha l’impressione che i colori molto saturi possano indicare il territorio onirico, poi in realtà si riproducono uguali in scene di quotidiano realismo famigliare. Lo stesso vale per il volume dei suoni, si tratti di musica, pianti, guaiti, grida, alti, altissimi, brucianti, sempre. Tutto va e viene davanti ai nostri occhi, con la violenza impetuosa e sensuale del viso sempre un po’ umido e del corpo spudorato e magnifico della protagonista Grace, interpretata da Jennifer Lawrence, la cui fisicità indomita urta bene contro la magrezza nervosa di Robert Pattinson, che è suo marito Jackson, per lo più inerte e perplesso.

La giovane coppia ha deciso di trasferirsi in campagna, nella grande casa che lo zio morendo ha lasciato a Jackson, dove Grace potrà dedicarsi davvero alla scrittura. Deve nascere, ovviamente, “il grande romanzo americano”, invece nasce un bambino, e l’inchiostro del romanzo perduto si mescola alle gocce di latte che escono dal seno di Grace, formando un intreccio che va a dissolversi nella configurazione analoga di una galassia che Jackson sta osservando al telescopio.

Certamente questa è una delle scene tanto estreme (e kitsch) da essere discutibili nel film di Ramsey, che non si nega nulla di eccessi e provocazioni al limite della banalità nel mettere in scena questa storia che solo all’apparenza racconta una forte depressione post partum, mentre in realtà, appunto scavando e intrecciando, ci fa risalire a sintomi di sbandamento (e di sbandamenti collettivi) molto precedenti.

Film sopra le righe e abbastanza sbalestrato, che può essere irritante, e che ha certamente dei buchi narrativi, ma anche un gran coraggio nel tirare fuori attraverso il caos delle sue immagini tutta l’energia repressa di una signora che non ce la fa più e che non può fermarsi né essere fermata, Die My Love ci fa vedere anche, acchiappato dagli occhi di una straniera, il riflesso dell’America profonda, dove la pace è finta, le torte troppo decorate e troppo dolci, gli afroamericani ricchi e minacciosi (in moto nera e in case stile Frank Lloyd Wright), dove un’anziana signora che ha capito tutto se ne va in giro la notte sonnambula imbracciando un fucile carico. Ma è davvero una buona idea trasferirsi dal caos limitante di New York alla quiete della campagna?