The Phoenician Scheme, che arriva dopo i due lavori più teorici e autoriflessivi di Anderson (The French Dispatch e Asteroid City), è certamente un’opera minore del regista americano, ma non per questo meno personale (del resto, ogni suo film lo è – e non potrebbe essere altrimenti). La dedica finale al suocero Fouad Mikhael Malouf conferma l’attaccamento di Anderson verso ogni sua creazione e (per lui) la sempre più evidente necessità e inevitabilità del suo modello di rappresentazione. Il limite che ormai tutti gli riconoscono – l’eccesso di composizione, la cura maniacale per i dettagli, la gratuità a braccetto con l’ipertrofia… – è inevitabilmente la sua ragion d’essere; anche la sua forza per chi la sa e la vuole riconoscere.
Protagonista del film è Zsa-zsa Korda (Benicio Del Toro), un multimilionario che ha sparso ricchezze e figli in tutto il mondo e che, sopravvissuto a un ennesimo tentativo di farlo fuori da parte dei suoi nemici (il film si apre con un attentato aereo che ripropone quegli scoppi di violenza un tempo usuali nei film di Anderson e ora presenti in forma stilizzata da graphic novel) decide di lasciare tutto alla figlia maggiore, la giovane novizia Leisl (Mia Threapleton), che ancora gliene vuole perché convinta che sia stato lui a uccidere sua madre, e di portare a termine la sua impresa più ambiziosa: la costruzione di un’infrastruttura nell’immaginario stato della Phoenicia (l’Arabia Saudita, la Palestina?) che prevede un tunnel ferroviario, un canale e una diga. Il complesso schema che Zsa-zsa allestisce per finanziare il progetto (e che lo porta a girare il mondo con Leisl e il suo assistente norvegese Bjorn, interpretato da Michael Cera) costituisce l’ossatura del film, a partire come al solito da una figura-guida illustrata: una serie di scatole che contengono ciascuna una fase del piano e corrispondono ai vari capitoli del racconto…
Il solito Anderson, insomma, tanto nell’uso dei piani fissi frontali, dei carrelli, degli aggiustamenti di campo, della profondità di campo, delle scenografie geometriche e vintage, quanto nel ricorso a dialoghi fittissimi e alla solita sfilata di volti noti nascosti sotto chili di trucco e parrucche (Riz Ahmed, Tom Hanks, Bryan Cranston, Mathieu Amalric, Richard Ayoade, Jeffrey Wright, Scarlett Johansson, Benedict Cumberbatch, Rupert Friend, Hope Davis, F. Murray Abraham, Charlotte Gainsbourg)…
Al solito tutto si ripete e si conferma, anche se stavolta lo schema è quello di un’avventura che mescola spionaggio, sopravvivenza, intrighi finanziari, contrattazioni, drammi familiari, il ovviamente con ironia e battute dissacranti e dentro una cornice che riporta visivamente e cromaticamente al cinema anni ’50 (epoca in cui il film potrebbe essere ambientato), tra Hitchcock e Lawrence d’Arabia, fantasie coloniali e riviste di viaggio, dimore lugubri alla Xanadu di Quarto potere e plastici che rimandano a Metropolis, mondi onirici alla Powell e Pressburger e la sorpresa, a proposito di contaminazioni di altri universi da parte dell’estetica andersoniana, di inserti mistici in cui il protagonista immagina d’essere chiamato nell’aldilà al cospetto di consessi divini allestiti come in un film di Paradžanov, ma in bianco e nero…
La vita nel cinema di Anderson sta accanto a questi dettagli: nel volto spesso ferito o tumefatto di Benicio Del Toro, la cui maschera di resistenza e sofferenza ricorda quella di Owen Wilson in Il treno per il Darjeeling e dona umanità a un personaggio geniale e spaventoso; nella riflessione sulla ricchezza che può ottenere tutto con la contrattazione (Zsa-zsa è chiamato «Mister 5%») e rinunciare ai diritti umani perché in grado di arrivare ovunque; l’ansia dell’accumulo dell’uomo solo e rabbioso (ancora Quarto potere…) e l’ossessione per la commercializzazione della politica (anch’essa arte del contratto) e dell’arte.
«Never buy good pictures. Buy masterpieces», dice Zsa-zsa di uno dipinto che tiene in casa, facendo eco a un passaggio decisivo di Asteroid City in cui il fotografo protagonista sosteneva narcisisticamente di non sbagliare mai un’immagine e produrre solo immagine belle… Bellezza e arte non sono però concetti che Zsa-zsa Korda sappia concepire, in linea con altre gigantesche e distruttive figure maschili (e ricchissime) che l’hanno preceduto (primo fra tutti Royal Tenenbaum, ma anche Mr Arkadin, a proposito di Welles) e in opposizione agli altrettanto numerosi artisti delusi e falliti. In fondo, prima della battaglia che oppone Zsa-zsa al fratello rivale e mefistofelico interpretato da Cumberbatch, entrambi condividono il loro motto, che è anche la loro unica certezza: «Who licks who, and in what?».
Imprigionato nel suo stesso universo, insomma, Anderson sa perfettamente di né potere né volerne venire fuori. Con The Phoenician Scheme ha provato a sondare la sua controparte, quella attirata dalla ricchezza e sospesa su una continua sensazione di morte e caos (in fondo anche qui talvolta la camera si muove in modo folle e i dialoghi s’accavallano), opponendovi non più l’arte e nemmeno la religione (ché in fondo Leisl impiega poco a rinunciare alla promessa dei suoi voti…), ma la possibilità di una via di fuga nella politica (l’arte della contrattazione, in fondo, può portare al sacrificio) e soprattutto nella distruzione del suo stesso mondo a mo’ di maquette (qui letteralmente distrutto dall’acqua, come in Metropolis…) e nell’idea timidamente rivoluzionare di ricominciare dal basso…
Tanto non esiste carrello in avanti o indietro, in su o in giù, a destra o a sinistra, che non possa aprire al fuoricampo e trasformare anche quella parte di mondo esclusa in un’inquadratura alla Anderson…