Tre giovani donne attendono il ritorno dei loro compagni, partiti per la guerra di Troia e mai più rientrati. Passano le giornate scrutando il mare, scrivono lunghissime lettere che nessuno leggerà, tessono tele in maniera minuziosa, annodano reti. Sono sole, la loro esistenza è riempita da una mancanza, che cadenza il tempo e dona un senso alle loro vite. I loro corpi, completamente coperti dalle tuniche, sembrano dover scomparire, necessari soltanto a accogliere l’eroe, o naturale richiamo al desiderio quando i nomi degli uomini, urlati verso il mare, non ottengono risposta.
La condivisione del dolore, l’incontro con una cacciatrice e quello con Penelope, a sua volta in attesa di Ulisse, permettono alle tre ragazze di creare un piccolo collettivo e finalmente agire.
1048 Lunes, liberamente tratto dalle Heroides (Eroidi) di Ovidio, è un piccolo gioiello, un film estremamente ambizioso e pieno di grazia.
L'esordiente Charlotte Serrand si confronta con un testo molto complesso, ribaltandone il senso e donando alle protagoniste un destino più dolce. Influenzata dal cinema di Straub e Huillet e da quello di Albert Serra, Serrand se ne libera abbastanza in fretta, dimostrando una consapevolezza e una maturità piuttosto rare per la giovane età e una temerarietà che le permette di usare l’ironia non solo per alleggerire la tragedia, ma come strumento di affrancamento (della regista dai suoi maestri e delle fanciulle dai loro eroi). Le tre donne iniziano a liberarsi della loro condizione di dipendenza e subordinazione all’uomo grazie a piccoli ma fondamentali dettagli.
Dopo aver incontrato una cacciatrice, le ragazze modificano la postura del loro corpo, smettono di ripetere i gesti quotidiani per rimpiazzarli con altri più buffi, meno delicati e ordinari, imparano a nuotare, a vedere il mare non più come una barriera posta tra loro e i compagni lontani, ma come un luogo da attraversare e conquistare.
Figura centrale per l’emancipazione delle tre è Penelope, interpretata da Françoise Lebrun. Il cortocircuito qui diventa chiaro. Penelope è “la donna in attesa” per antonomasia, ma è anche colei che con astuzia fa e disfa la tela per tenere a bada i Proci. In 1048 Lunes ha il volto dell’eroina di quel capolavoro senza tempo che è La Maman et la putain (1973) di Jean Eustache. È lei a pronunciare, nel film di Eustache, ubriaca e in lacrime, lo straordinario monologo del pre-finale, che affranca la donna da qualsiasi luogo comune sulla sessualità e sull’amore, donandole la dignità di essere desiderante, vivo, libero. Nel film di Charlotte Serrand è lei a usare l’ironia, è lei a tessere il drappo che viene mostrato solo nei dettagli, per essere svelato alla fine, e è sempre attraverso di lei che si compie la trasmissione di un sapere e soprattutto di un desiderio di emancipazione.
Lasciando che lo spettatore scopra il film a poco a poco e confidando nella sua intelligenza, Serrand non esplicita nulla, lascia che immagini e suoni rimandino ad altro, riponendo nella messa in scena e dunque nel cinema una fiducia totale. È sufficiente un velo intravisto in mezzo a una radura, una macchia di colore, un taglio della luce, splendida, che riempie i volti delle donne e mette in ombra uno scoglio, la luna, gialla e enorme, per richiamare un immaginario, vederlo prendere vita, respirare.
Il potere evocativo delle immagini è talmente forte da permettere alla regista di usare il testo di Ovidio giusto come un canovaccio, senza alcun timore reverenziale nei suoi confronti, inserendo suoni che appartengo alla contemporaneità, a rimarcare che ancora oggi, secoli e secoli più tardi, la donna ha la necessità di emanciparsi, ha il bisogno di abbandonare finalmente l’idea che l’amore sia sacrificio, attesa, dipendenza, giustificando la propria subordinazione anche erotico-sentimentale con un sentimento il cui rovescio sembra essere dolore e melanconia.
È grazie alla vicinanza con le altre, alla condivisione e all’unione delle proprie energie che si deve la trasformazione di una reazione in un’azione, di una mancanza, di un abbandono in un nuovo incontro, della prostrazione in riacquistato vigore.
Fino a scorgere all’orizzonte non il vuoto, ma la possibilità di un inizio.