“Chutzpah” è una parola di derivazione yiddish entrata ormai da tempo nel gergo anglo-americano. Se inizialmente il suo significato sottolineava caratteristiche prevalentemente negative – una sorta di insolenza, di arroganza – con il tempo ha assunto sfumature diverse, assumendo un senso a metà strada tra orgoglio e faccia tosta, sospeso tra impertinenza e spudoratezza, spesso utile, se non necessario, per trovare un proprio posto nel mondo. Su questo fragile equilibrio semantico, Monica Stambrini ha costruito il suo documentario-specchio Chutzpah – Qualcosa sul pudore, presentato come evento di chiusura al Festival Filmmaker di Milano.
Il film è una sorta di diario intimo, girato con materiale raccolto nel corso di dieci anni, in cui Stambrini si mette a nudo, emotivamente e fisicamente: partendo dal dolore per la propria separazione e dalle difficoltà di impostare un nuovo modello di vita nella relazione con i figli, l’autrice ripercorre – a volte dipanando, a volte ingarbugliando – i fili del passato e del presente. Il documentario è un viaggio in prima persona che, in un momento di sbandante disequilibrio, cerca di riportare le cose (i sentimenti, i rapporti) a fuoco, in quadro. Ragionando in termini di pura narrazione cinematografica, l’autobiografia prende forma, si definisce, prova a restituire un senso compiuto. L’infanzia americana, la sofferenza per la separazione dei genitori (che si specchia e si riflette nella sua), il senso di fallimento di un percorso analitico che si sente il bisogno di testimoniare registrando di nascosto le sedute, gli amori fugaci e le instabilità emotive. Stambrini si ricostruisce come fosse una donna-puzzle, mantenendo saldo un atteggiamento di autoironia che non disinnesca mai la tensione emotiva, senza però cedere al ricatto dei sentimenti.
Esordiente al Torino Film Festival nel 2002 con Benzina, tratto da un romanzo di Elena Stancanelli, autrice eclettica di numerosi cortometraggi e film tv, fondatrice del collettivo “Le ragazze del porno” e regista di Queen Kong e ISVN – Io sono Valentina Nappi, rari esempi di film espliciti d’autore al femminile, Stambrini vuole rivendicare sempre quell’impudicizia, quella feroce adesione – letteralmente anima e corpo, che per lei sembrano essere una cosa sola – a una libertà personale, che è naturalmente concentrata su uno sguardo femminile (femminista) e politico. Chutzpah diventa quindi un intervento chirurgico senza filtri né anestesia, in cui si mescolano formati differenti e disparate qualità audio e video, in cui si susseguono gesti meccanici e improvvisi scarti, in cui la danza corporea e tribale da discoteca si alterna alle parole della poetessa Patrizia Cavalli musicate dolcemente da Diana Tejera, in cui non si vuole cercare alcuna pacificazione assolutoria in nome di una salutare instabilità alimentata da un conflitto continuo. Chutzpah è un film in continuo movimento, che riflette alla lettera le incertezze e le imperfezioni della sua autrice. Un cinema orgogliosamente imperfetto, certo, dove si rivendica la fragilità della barriera tra pubblico e privato e che sa essere, fino in fondo, “umano, troppo umano”.