Samira Guadagnuolo e Tiziano Doria provengono dal collettivo milanese Labbash (nato sulla scorta dell’esperienza partecipativa e laboratoriale di UnzaLab). Il loro è un cinema fuori da ogni moda culturale e sistema industriale; ripreso in pellicola, poi sempre in prima persona sviluppato e stampato. Non fa eccezione il loro ultimo lavoro L’albume d’oro, presentato in anteprima Filmmaker e fotografato in 16mm e in un bianconero che però esalta i toni intermedi del grigio, lontano da ogni accademismo vintage e orientato invece a esaltare la concretezza della materia e degli spazi.
Girato a Venosa, nel nord della Basilicata, il film è anzitutto una sfida. Sia per gli autori, fedeli alla loro linea in un contesto sempre più frammentario e costretti a incunearsi nelle falle di un mercato che ne esilia gli sforzi nel limbo dell’invisibilità. Sia per gli spettatori, disorientati di fronte all’impossibilità di definire l’esperienza che stanno vivendo. Paradossalmente, è infatti molto più facile descrivere quello che L’albume d’oro, sospeso tra sperimentalismo e stasi contemplativa, di fatto non è. Non è infatti un documentario in senso tradizionale, non è l’elegia di un mondo arcaico e rurale, non è un’egloga pastorale, non è la partecipe ricognizione di un mondo ai margini della Storia, lontano dal benessere e dalla modernità, refrattario allo scorrere del tempo e imbevuto del retaggio della superstizione e della magia, dove un uovo di gallina nascosto in un reggiseno può dischiudersi e far nascere un pulcino o un pollo arrostito in un tegame può rinascere e volare via (come succede a Giuda nel Vangelo di Nicodemo).
Forse, il film è la somma di tutto questo. E anche altro. Di certo, la scelta di alternare scene della vita di campagna (dalla vita contadina ai rituali conviviali) a una cornice in cui compaiono frammenti di quadri incentrati sulla figura del «dormiente» nella pittura dal ‘300 al ‘500 pone l’opera sotto il segno di una prospettiva meramente onirica, come se i due registi, prima che autori, fossero anzitutto sognatori chiamati a perdersi nel mondo che raccontano e raccoglierne le suggestioni e le contraddizioni. E per questo impossibilitati a comporre un quadro unitario e coerente (anche se, sopra ogni cosa, emerge un desiderio di palingenesi e rinascita, come se tutto fosse immerso in un flusso che esclude la Morte dall’orizzonte della Vita ed esalta la potenza generatrice delle figure femminili), ma in grado di captarne schegge e particelle infinitesimali. Al contempo omaggiandone la saggezza quasi presocratica, superando una dimensione antropocentrica in nome di una visione cosmologica che mette sullo stesso piano Uomo e Natura (un po’ sulla scorta del pensiero di Peter Singer) e creando una forte connessione tra la precisione del gesto, la fatica del lavoro e la dimensione dell’irrazionale.
Curioso, in fondo, che L’albume d’oro venga presentato proprio nei gironi in cui in libreria esce un nuovo saggio che il grande latinista Ivano Dionigi ha dedicato a Lucrezio (L’apocalisse di Lucrezio. Politica, religione, amore, edito da Raffaello Cortina). Perché il film di Guadagnuolo/Doria e il De rerum natura lucreziano sono compartecipi sia di una visione del mondo che relega il dramma e le vicende umane in una condizione paritaria rispetto a tutte le altre costituenti della realtà sia del sogno di creare una corrispondenza d’amorosi sensi tra il linguaggio della natura e quello dell’Arte. Il poeta con il verso e la parola, i due cineasti usando la macchina da presa come scandaglio invisibile (quando è necessario sospendersi nell’osservazione) o rendendo manifesta la sua presenza (nei momenti in cui è chiamata a esplorare il mondo raccontato). Sempre, però, con il rispetto della materia raccontata, la consapevolezza del proprio ruolo e la capacità di porsi alla giusta distanza.