Al Teatro Quirino di Roma, il 3 ottobre 1958, andò in scena una «serata commemorativa» senza repliche, dal titolo Immagini e tempi di Eleonora Duse. Voluta, progettata e organizzata da Gerardo Guerrieri e da sua moglie Anne d’Arbeloff con il loro «Teatro Club» operante dall’anno precedente, in collaborazione col Centro Sperimentale di Cinematografia, per conto del quale il giovane Riccardo Redi ebbe a compilare un’antologia visiva comprendente parte di Cenere. Ricorreva quel giorno l’esatto centenario di nascita dell’attrice: come quest’anno ricorre quello dell’unico film da lei interpretato, Cenere di e con Febo Mari, dalla Deledda, prodotto a Torino da Arturo Ambrosio, riguardo al quale è imminente l’importante libro curato da Maria Pia Pagani e Paul Fryer, Eleonora Duse and “Cenere”, edito a Londra da McFarland & Co.
Il prestigio della coppia, romana d’adozione, aveva potuto ottenere l’impegno in regìa di Luchino Visconti, nonostante, o forse proprio perché, nella medesima struttura stesse provando l’imminente allestimento di Veglia la mia casa, angelo (di Ketti Frings dal romanzo di Thomas Wolfe, autore dimenticato e riportato “in vita” proprio in questi giorni da Genius di Michael Grandage). Il grande regista era sicuramente l’uomo giusto per dare vita a quell’evento unico e irripetibile, non soltanto perché all’epoca rappresentava da oltre un decennio il monarca assoluto di quel teatro e della scena romana, ma in quanto aveva proprio in Guerrieri il suo più stretto collaboratore e consulente.
La serata non dovette, nonostante tutto, essere riuscita travolgente, a giudicare almeno dal rendiconto de «Il Dramma» di Lucio Ridenti di quel mese, con la Divina raffigurata in copertina, il cui stile fa pensare che l’anonimo estensore ne fosse il direttore stesso: «Guerrieri ha preparato un testo, con l’intenzione di ricostruire la biografia della Duse, attraverso le notizie, le cronache del suo tempo, le testimonianze e le lettere di lei. Visconti ha ideato un apparato scenico che della Duse, in grandi e belle fotografie, riproduceva le mutevoli sembianze, sia nella vita privata come nelle famose interpretazioni. Praticamente la commemorazione – invero difficile – è consistita nella lettura della narrazione-conferenza di Guerrieri, i cui brani erano stati suddivisi tra gli attori Edmonda Aldini, Lia Angeleri, Lilla Brignone, Tullio Carminati, Giorgio De Lullo, Rossella Falk, Cesare Fantoni, Vittorio Gassman, Emma Gramatica, Rina Morelli, Romolo Valli. Luise Rainer e Robert Brown, per quel tanto di snobismo sempre presente nelle manifestazioni del Teatro Club, hanno recitato in inglese la scena finale di Casa di bambola. Il pubblico si è mostrato irrequieto; gli attori – certo turbati dall’avvenimento – eccessivamente riservati. Infinita commozione per Emma Gramatica che ha recitato da quella grande attrice che è un brano della Città morta, e vivo turbamento di Tullio Carminati nel leggere l’ultima lettera indirizzatagli dalla Duse. Carminati fu, con Benassi, l’attore prediletto degli ultimi anni della divina».
Un’altra recensione della serata, quella di Nicola Chiaromonte per «Il Mondo» di Pannunzio, fa esplicita menzione, cavallerescamente senza nominarle, all’«umore di due nostre attrici, visibilmente indispettite per qualche oscuro motivo».
Perché Visconti aveva accettato di cimentarsi nell’insolita e impegnativa, da un certo punto di vista, forse, persino ingrata impresa? La risposta va cercata retrocedendo nella sua biografia di trentasette anni (lo scorso 2 novembre ne ha rappresentato a sua volta il centodecimo anniversario della nascita).
Eleonora Duse era riapparsa sulle scene il 5 maggio 1921, dopo ben dodici anni dal ritiro – lungo interludio interrotto solamente dalla controversa partecipazione al film – tornando a cimentarsi con La donna del mare di Ibsen al Carignano di Torino. Un’occasione di richiamo tanto straordinario quanto inatteso: vi convergono il fior fiore della critica teatrale e del giornalismo (da Silvio d’Amico già autorevolissimo al poco più che adolescente Piero Gobetti, del resto genius loci) e il bel mondo nazionale al gran completo. Si dà il caso che alla prima fosse presente, in compagnia della madre, Donna Carla Erba, la cui passione per la scena è ben nota, anche Luchino Visconti quattordicenne. Se ne riporta la testimonianza, assai suggestiva, resa molti anni dopo, rispettandone la caratteristica forma orale.
« La Duse? La Duse io l’ho sentita che ero giovane, la Duse. Negli ultimi anni che recitava. Per me era un’emozione enorme, un incanto, non so come dire: probabilmente di Duse ne viene una al secolo. Mettiamo che oggi la Duse fosse tra noi e che uno la chiamasse per recitare Gli spettri, ecco. Probabilmente lei avrebbe la sua concezione di quella recitazione. Però, essendo passati alcuni anni, poniamo, da quando lei li aveva fatti per la prima volta, io sono convinto che oggi si piegherebbe a certe cose, o capirebbe, le avrebbe capite, ne sono sicuro. Durante la sua carriera, infatti, la Duse si è trasformata continuamente, ha continuato a cambiare stile, ha capito i testi, ha avuto bisogno di testi diversi, ha gettato via la paccottiglia di testi, era una donna così. Era un talento particolare, era un fenomeno particolare... Oggi c’è chi dice: “Oh, ma la Duse oggi sarebbe insentibile, per carità!”. Queste sono scemenze, non vuol dire nulla. La Duse, vivendo questi anni, avrebbe certamente capito molte cose.
Quando la sentii allora – ero ragazzino – rimasi addirittura senza fiato. Che si potesse recitare così non lo capivo neanche. Ricordo che domandai a mia madre: «Ma recita, o cosa fa?». Perché non pareva che recitasse... Dunque lei era avanti, avanti, avanti, già prossima a tutto quello che è venuto dopo di lei, le aveva già capite tutte, aveva intuito. Recitava il primo atto de La donna del mare. Io dissi: «Ma sta recitando, o parla con Zacconi, che fa?». Recitava, invece, recitava: diceva delle cose, faceva dei disegni in terra con l’ombrellino, cose che molte hanno fatto, ma assai dopo, appunto».
Quell’ombrellino ritorna pari pari, nella recensione che Silvio d’Amico, dopo una commossa cronaca a caldo dell’evento pubblicata la mattina successiva, farà uscire sull’«Idea Nazionale» due giorni dopo, il 7 maggio, dandoci anche una preziosa descrizione analitica proprio del “non recitare” rievocato da Visconti: «Dunque ella era senza cappello, scoperte le belle e abbondanti chiome grigie e – poiché Ellida ritorna dal bagno avvolta in una sciolta vestaglia – teneva in mano, chiuso, un minuscolo ombrellino, non per il manico, ma per la punta; col manico veniva disegnando distrattamente in terra, seduta sotto il chiosco, mentre parlava. Come parlava? Ah, questo è difficile, è impossibile ridire. E chi non l’ha ascoltata, non riuscirà a farsene un’idea, pur con tutti i paragoni e tutti i possibili richiami alla attrici più note che l’hanno imitata e la imitano. Parlava (e non giureremmo che quella parte del pubblico, la quale non conosceva bene il dramma, stesse molto attenta al preciso senso delle parole) parlava come tutte le donne parlano nella vita e come non parla nessuna: con una verità così semplice e fresca, che il suo sembrava il più facile e naturale eloquio del mondo. Non arte, ma vita: vita di tutti i giorni: e tuttavia quelle sue frasi, che prese una per una appaiono -sebbene a poco a poco costruiscano il dramma- così comuni e quasi indifferenti, erano tutta una melodia di toni leggeri, fuggevoli, aerei, soffi di uno spirito esalante un tenue canto, una inquietudine senza posa, anelito ad un infinito, indicibile bene. Che cosa ha ascoltato il pubblico del primo atto? Niente altro che questo suo parlare, in una conversazione familiare. Era insieme un discorso quieto e un canto».
[Divertente, dopo l’emozione profonda che suscitano queste righe, il commento dei curatori delle Cronache del teatro 1914-1928 (Laterza 1963) dell’autore, Eugenio Ferdinando Palmieri e Sandro D’Amico: «Forse si tratta dell’ombrellino che nella raccolta dei costumi e degli oggetti dusiani, al Museo Civico di Asolo, è contrassegnato così: “Ombrellino di Mirandolina”. Come se Mirandolina girasse per la locanda col parasole»].
Un approfondimento anche minimo sulla vera e propria rivoluzione recitativa che la Duse stava manifestamente portando avanti nell’ultimo triennio della sua ricominciata carriera necessiterebbe di ulteriore spazio, cui qui si rinunzia: rete e digitale sono nemici della prolissità. E sulla rivoluzione recitativa intuita e presentita da Eleonora di tenterà di ritornare.
Doveroso però aggiungere almeno un’ultima parola sull’ideatore di quella remota occasione, Gerardo Guerrieri (1920 Matera-Roma 1986), svelandone la magnifica e letale ossessione con le parole di un importante e quasi altrettanto lontano articolo di Luciano Lucignani (Morire per la Duse, “la Repubblica” del 10 gennaio 1994):
«Fu il desiderio di perfezione la causa del fallimento del grande progetto che gli era costato trent’anni di lavoro: scrivere la biografia di Eleonora Duse. Con le ricerche compiute in tutte le maggiori biblioteche d’Europa (Russia compresa) e d’America, Guerrieri era riuscito a mettere insieme qualcosa d’impensabile, uno schedario nel quale la vita della grande attrice era seguita giorno per giorno, dal momento del debutto alla morte a Pittsburgh, ossia dal 1878 al 1924. Una mole di documenti dalla quale, come certamente capì prima di morire, non sarebbe mai riuscito ad estrarre le poche centinaia di cartelle che avrebbero dovuto formare il volume. Un dramma che, a suo modo, ha sapore simbolico: sapere troppo equivale a sapere troppo poco (o a non saperne nulla). Ordinare il materiale raccolto secondo i vari modi nei quali, via via, aveva pensato di sistemarlo, ormai non era più possibile. Quando se ne rese conto, Gerardo decise di gettare la spugna. Non era il tipo da accettare il fallimento e preferì uccidersi. Era il 24 aprile 1986».