L’abbiamo letto più o meno ovunque: 1992 è una parziale occasione persa.
Non è ancora finita, certo, siamo in fondo alle prime puntate, ma la fantomatica storia della nascita di una nuova Italia dal terremoto di Tangentopoli, dalla fine della Prima Repubblica, dall’ascesa di Berlusconi e dalla trasformazione del discorso politico in evento televisivo, per il momento sta più nelle intenzioni (lodevoli e ammirevoli) che nei risultati.
Difficilmente, però, si tratterà di semplice economia della serie o di costruzione narrativa in progressione: se 1992 non è l’indagine politica e culturale di una processo storico è perché fin dalla seconda scena, dopo l'inevitabile inizio al Pio Albergo Trivulzio di Mario Chiesa, con Accorsi che ci tiene tanto a farci sapere che gli anni Ottanta sono finiti e da considerare modernariato edonista, la serie procede per puro e semplice accumulo di rimandi e frammenti, ammiccamenti e furberie da studiati, tra mélange di generi (romantico, poliziesco, mélo, giallo), figure storiche, personaggi fittizi, materiale d’archivio e ricostruzioni.
Il problema è nel manico, nel desiderio di realizzare non una serie tv italiana come l’avrebbero potuta fare gli americani, ma proprio una roba americana e basta, ricalcando cioè il modello di serie tv ormai diventate mainstream – Mad Men e House of Cards su tutte – e di generi letterari arcinoti, come le faction di Norman Mailer e Gore Vidal o le immancabili ricostruzioni storico-noir di Ellroy.
La questione dell’accumulo è figlia di una subalternità culturale affermata e compiaciuta, frutto senza dubbio di autentica passione e autentico studio in anni di corsi di scrittura creativa, ma che una volta sullo schermo finisce per essere cultura esposta su uno scaffale, archivio sotterraneo di frasi, personaggi, trucchi narrativi, spiegoni, citazioni, e magari pure qualche colpo di genio.
È difficile, insomma, non pensare che l’idea di Stefano Accorsi alla base della serie non sia tanto quella di raccontare gli anni di Tangentopoli, quanto quella di poter dire ai suoi nipoti di aver un giorno interpretato pure lui una scena alla Don Draper, con il sorriso sornione, la voce smorzata, la furbizia visionaria di chi legge nelle viscere della società dei consumi...
Altrettanto si potrebbe poi dire degli autori, a cui bastano i primi venti minuti della serie per far sapere a tutti che loro hanno visto per l'appunto Mad Men, certo, ma anche No di Larraín, e quindi sì che l’hanno capita l’Italia di allora, l’Italia che poi sarebbe diventata il Paese di Berlusconi e di Publitalia e che dunque va raccontata con il filtro del pop, dell'alto e del basso, citando Flaiano, attestando la deriva della fantasia al potere al servizio della pubblicità, riconoscendo l’imborghesimento della sinistra, mettendoci dentro la Guerra del golfo, la Lega Nord, la Raitre di Guglielmi, Dell'Utri, Bossi, la DC agonizzante, il PDS furbetto, Non è la Rai ed Everybody Hurts di REM, che è del ’92, ovviamente, e rimanda a al medesimo uso vintage che le serie americane hanno fatto di pezzi di Dylan, dei Beatles e di Peter Gabriel.
Il problema di 1992 è una perenne ansia da prestazione intellettuale. Un’ansia che rende furbetta ogni lezioncina sul passato (ci spiegano pure come è nata Domenica In!), che viene dritta dalle scorribande pop che uno come Baricco conduce da anni nella cultura contamporanea e classica, e che non ha alcuna intenzione di mollare, visto che ancora oggi se discute con Carrère del Regno non può parlare solo di Luca, Paolo e dei Vangeli, ma ci deve mettere dentro pure la battuta di McEnroe, o il ricordo pasoliniano degli anni del collegio, perché è così che funziona, tutto è intorno a noi, tutto è collegato.
1992 è così, parla per strati, aggiunge livello a livello, mette la sigla di Casa Vianello sulle immagini di Studio Aperto dell’omicidio di Salvo Lima, accatasta materiale di scena sul palcoscenico con la sapienza del geniaccio, ma non si preoccupa di trasformarlo in scenografia, di dargli un senso che vada oltre l'accostamento.
Va bene, insomma, cercare strade alternative alla narrazione collettiva di una nazione; va benissimo non rifare sempre e comunque C’eravamo tanto amati e Italia Germania 4-3, ma il problema è che stavolta la fantomatica rinascita dell’Italia negli anni di Tangentopoli sembra la storia di qualcun altro: italiana giusto in superficie, puro immaginario rimasticato in profondità.