Getting wired, venire connessi: è una delle espressioni che ricorrono con maggiore frequenza in The Knick, in riferimento al processo di elettrificazione, a inizio novecento, della città di New York e, nello specifico, dell’ospedale che dà il titolo alla serie.
Ma già sul piano terminologico l’idea di essere wired stabilisce una ulteriore connessione, forte e inequivocabile, tra allora e oggi, due inizi di secolo che si somigliano più di quanto vorremmo. Nel bene e nel male: sui fili del wire infatti corrono accelerazioni tecnologiche più rapide dei pensieri e dei sentimenti della gente, con la conseguenza che il progresso, ieri come oggi, si trascina dietro retaggi antichi, barbarici, sanguinari.
Nella New York di The Knick l’odio razziale porta il sangue a scorrere nelle strade (si veda in particolare il settimo episodio) in modi non dissimili da quelli odierni. Sebbene la gente si connetta con entusiasmo, in principio di ventesimo e ventunesimo secolo, quella della connessione rimane un’idea incompiuta, quasi uno scherzo del destino, se consideriamo quanto siamo tutti drammaticamente lontani dal trasferire il concetto dal piano tecnologico a quello antropico. Quanto più i cavi ci avvicinano, tanto più il colore della pelle (ieri) e le religioni (oggi) ci allontanano.
La luce - nella sua progressiva, inesorabile opera di colonizzazione dell’oscurità – rappresenta uno dei due grandi temi di The Knick. L’altro è la morte, tenace antagonista di chirurghi che si arrampicano sugli specchi di una scienza medica ancora agli albori, più tattile che strumentale, figlia di improvvisazioni geniali ed estri teatrali. Non è un caso che le operazioni avvengano in una sala corredata da posti a sedere, dove puntualmente si accomodano attempati signori, solleciti nel seguire gli interventi e nell’applaudire quelli che, essendo il paziente sopravvissuto ai ferri, possono dirsi riusciti.
Esorcizzazione della morte, affermazione della luce, scienza che si fa spettacolo (e viceversa). Dove, all’inizio del secolo scorso, ritroviamo insieme questi stessi tre elementi?
Soderbergh non ha smesso di fare cinema, semmai ha deciso di praticarlo in modo furtivo, come un cospiratore. Qui ad esempio ne parla senza darlo a vedere, costruendo il ritratto di un’epoca nella quale hai l’impressione che il cinema non potesse non nascere, tali e tante sono le professioni e le attività implicate con quelle che verranno poi definite le ossessioni della settima arte. In ordine sparso, fendere l’oscurità con la luce, sconfiggere la morte, correre acrobaticamente sul filo che divide la scienza dallo spettacolo, il medico dallo stregone, la cura dal miracolo.
Ma The Knick non guarda solo indietro, ad un’epoca che assomiglia alla nostra e a ciò che, in essa, ha consentito e favorito la nascita del cinema. C’è in questa serie qualcosa di profondamente innovativo, che riguarda l’alfabeto della messa in scena, dal gioco delle focalizzazioni all’uso della profondità di campo, dal montaggio all’illuminazione.
Il tempo dirà se The Knick è un caso di cinema contrabbandato per tv o se rappresenta piuttosto il primo esempio di un nuovo stadio evolutivo della fiction televisiva, dove per una volta tutto non viene subordinato alla perizia degli interpreti e allo spessore della narrazione. Di certo si tratta di un prodotto stilisticamente raffinato, che – sequenza dopo sequenza – lascia trapelare l’intelligenza visiva del suo autore. Nel mondo delle serie tv, il termine spesso designa - opportunamente, data la qualità dei dialoghi e dell’intreccio - colui che l’ha ideata e scritta. Ma qui, alla luce della forza visiva della serie, deve necessariamente essere ricondotto a chi l’ha messa in immagine.
Mentre ci faceva credere di avere chiuso con il cinema, Soderbergh lo portava da un’altra parte. Come i chirurghi della sua serie, lo collega ad un altro organismo, e sta a vedere cosa succede.