Ci sono Spielberg, Dante, Carpenter, Donner e Stephen King. I Jefferson Airplane, i Toto, i Clash e i Joy Division. Winona Ryder e Matthew Modine. C’è quel peculiare font utilizzato per i titoli di testa, con il rosso che “sborda” dai confini dei singoli caratteri e le spuntinature delle VHS consumate.
In Stranger Things, la serie in otto puntate scritta per Netflix da Matt e Ross Duffer e diretta dagli stessi Duffer Brothers in (inavvertibile) alternanza con Shawn Levy, si paga un tributo talmente potente e filologico al cinema (ma più in generale alla cultura pop) degli anni Ottanta, da scagliare d’un botto i quarantenni di oggi indietro fino ai loro 14 anni: una diabolica madeleine di immagini e suoni che riporta alle lacrime piante per E.T., alle palpitazioni per le avventure dei Goonies, ai pomeriggi estivi bruciati divorando i romanzi di King (uno scrittore così venerato che perfino il suo traduttore dell’epoca, Tullio Dobner, acquistava una statura quasi leggendaria), ai tempi dell’acquisto del primo videoregistratore (un evento talmente esaltante che oggi, in tempi in cui si hanno a portata di torrent migliaia di film neppure usciti in sala, risulta perfino difficile da spiegare).
Tra le decine di riferimenti cinematografici e letterari di cui è innervata Stranger Things – che racconta di quattro ragazzini, di cui una dotata di poteri ESP, impegnati nel tentativo di salvare un amico trascinato da una creatura mostruosa in una terrificante dimensione parallela – il più corposo è quello al romanzo Firestarter, proprio di King (in italiano tradotto come L’incendiaria). Pubblicato negli Usa nel 1980, il libro rifletteva la disillusione seguita al crollo delle istanze libertarie che, negli anni 60 e 70, avevano fatto balenare l’ipotesi di una società migliore e più equa: scritto negli anni compresi tra lo scoppio del Watergate e appena prima dell’insediamento di Reagan alla Casa Bianca, Firestarter – nel descrivere la caccia a una bambina dotata di poteri psichici potenzialmente distruttivi, scatenata da un’agenzia governativa responsabile della sperimentazione di nuove droghe su giovani studenti squattrinati – è un distillato della paranoia conseguita alla perdita di fiducia nelle istituzioni.
Il sopraggiungere sinistro del riflusso – che si legge tra le righe di quel capolavoro sempre ambientato negli 80 che è Tutti vogliono qualcosa di Linklater, o addirittura in Vizio di forma di Pynchon (e P.T. Anderson), calato addirittura nell’estate del 1970 – come l’orrore contenuto in ogni disillusione, sono rappresentati in Stranger Things dall’Upside Down, l’universo parallelo in cui vivono i mostri, che è speculare al nostro mondo solo molto più grigio, plumbeo, marcio e depravato.
Ma le assonanze tra King e la serie Netflix non si esauriscono nelle similitudini tra i plot. Quello che più stupisce dell’opera dei Duffer (che avrebbe potuto esaurirsi in un reverente quanto sterile omaggio a un immaginario ormai cristallizzato) è infatti la qualità della scrittura, la cui limpidezza ricorda proprio gli esiti migliori dell’autore di Portland. Prendiamo le ultime righe de L’Incendiaria, quando la piccola Charlie McGee, momentaneamente sfuggita alla caccia degli agenti del governo, arriva nella redazione newyorchese di «Rolling Stone» per raccontare la sua storia e denunciare i suoi persecutori.
Alla reception c’era una giovane donna dai limpidi occhi grigi. Guardò Charlie per parecchi secondi, senza parlare, annotandosi mentalmente il sacchetto di carta Shop and Save, l’arancia, la magrezza della bambina: più che magra era emaciata, alta però per la sua età, il suo viso aveva una sorta di calma, serena luminosità. Diventerà così bella da grande, pensò la ragazza della reception. “Cosa posso fare per te, sorellina?” Chiese e sorrise. “Ho bisogno di parlare con qualcuno che scrive per il vostro giornale” le disse Charlie. Aveva parlato con voce bassa, ma chiara e decisa. “Ho una storia che vorrei raccontare. E anche una cosa da far vedere”. “Proprio come racconta-mostra-e-dimostra a scuola, vero?” le chiese la ragazza del giornale. Charlie sorrise. Il sorriso che aveva incantato il bibliotecario. “Sì”, rispose. “È tanto tempo che aspetto”.
Pur facendo riferimento alla traduzione italiana (a cura di Maria Grazia Prestini), salta subito agli occhi la capacità di sintesi e di descrizione di King, la meticolosità nella scelta dei vocaboli, la qualità “visiva” del suo stile. E in Stranger Things sono proprio il nitore cristallino della scrittura, la capacità di coinvolgere, emozionare e commuovere lo spettatore (o lettore) senza farlo sentire manipolato che trasformano un potenziale esercizio di brillante citazionismo, in una miniserie che, pur derivativa per scelta, brilla di luce propria, capace com’è di infondere coerenza narrativa e soprattutto calore a un calderone di segni già introiettati, di formule ri-arrangiate, di situazioni ri-lette e re-interpretate (impossibile non commuoversi quando Winona Ryder, magnifico volto e corpo simbolo a partire dalla fine degli Eighties, dialoga col figlio scomparso attraverso un groviglio di lucine natalizie, come già fece JoBeth Williams con la piccola Carol Anne servendosi del televisore in Poltergeist, e terrestri e alieni, facendo ricorso ai colori e alle note musicali, nel finale di Incontri ravvicinati del terzo tipo).
Perfettamente capace di padroneggiare l’effetto nostalgia senza lasciarsene fagocitare, Stranger Things richiama alla memoria quella celebre frase contenuta in Stand by Me (film puntualmente omaggiato in una sequenza della serie, ancora tratto da un racconto lungo di King), secondo cui da adulti non si hanno più gli amici avuti a 12 anni.
Ecco, Stranger Things non ci restituisce la nostra adolescenza (né gli amici di allora), ma ci ricorda di averla vissuta. E non è poco.