Le tre puntate centrali di Love – la serie creata per Netflix da Judd Apatow, Lesley Arfin e Paul Rust (che del serial è anche uno dei due protagonisti, l’altra è Gillian Jacobs) – sono, con ogni probabilità, tra le cose migliori a cui abbia mai messo mano, in qualsiasi veste creativa, Apatow.
In sintesi, Love racconta il percorso di avvicinamento affettivo tra Gus (Rust), uno dei tipici nerd apatowiani, e Mickey (Jacobs), ragazza con problemi di dipendenza da alcol, droghe, sesso e affetti. Le puntate 5, 6 e 7 (di gran lunga le migliori della serie per qualità di scrittura e perfetto bilanciamento dei toni) raccontano le tre fasi embrionali del romance fra Gus e Mickey: primo bacio, primi tentennamenti in vista dell’appuntamento “ufficiale” e finalmente, nella splendida settima puntata, prima “uscita da coppia”, per quanto in fieri.
Se gli episodi 5 e 6 sono intelligenti tappe di avvicinamento al clou della prima stagione (e quanta precisione psicologica, quanto acume nel descrivere quel misto di euforia, ansia, improvviso incremento di autostima e dubbi di inadeguatezza che precedono la nascita di una possibile storia d’amore), il settimo (diretto da Steve Buscemi) è un piccolo miracolo di equilibrio narrativo, capace com’è di divertire, suggerire riflessioni (anche sessuali) non banali sui rapporti di coppia e, infine, commuovere.
Cruciale, nella puntata di Buscemi, è la sequenza ambientata al Magic Castle, un esclusivo ritrovo per amanti della magia e della prestidigitazione, dove l’entusiasta Gus accompagna la scettica Mickey (tipico tòpos apatowiano: l’uomo è generalmente immaturo e con spiccata tendenza al nerdismo, la donna è pragmatica e concreta). Ma la visita si rivelerà un disastro: Mickey non dimostrerà alcun entusiasmo per i giochi di prestigio («preferisco guardare la magia attraverso gli occhi di quella signora, guarda come si diverte, starei tutta la sera a guardarla»), boicotterà involontariamente uno dei più classici trucchi da repertorio non memorizzando, ma solo guardando distrattamente, la carta che gli viene mostrata da un illusionista e, davanti allo spettacolo principale della serata, si metterà d’impegno a sabotare la magia del momento («Si vedono chiaramente i fili... Ma guarda, è tutto un gioco di magneti»).
Per quanto divertente (Mickey e Gus saranno cacciati dalla sala perché lei ha freddo e lui le presta la giacca, contravvenendo così al rigido protocollo formale della serata), la sequenza al Magic Castle è memorabile perché descrive perfettamente quella sensazione di disincanto che nasce quando le aspettative di cui carichiamo la persona che immaginiamo perfetta, si confrontano (si scontrano) con l’effettiva conoscenza della persona stessa. La disillusione di Gus, che cerca negli occhi di Mickey almeno un barlume d’interesse per quella magia che lui adora, è la stessa che prova un cinefilo quando mostra per la prima volta il suo film del cuore all’amato/a e lei (o lui) sbadiglia o guarda il cellulare.
È il doloroso passaggio dall’illusione di avere trovato l’anima gemella, alla (banale) constatazione che l’altra persona non è una nostra proiezione da cui siamo (anche) sessualmente attratti, ma un essere umano indipendente, con i propri gusti, preferenze, passioni e idiosincrasie. E tutto questo Apatow – in Italia spesso accusato di produrre cinema regressivo, autoindulgente, perfino reazionario – lo descrive con una grazia e una sensibilità che francamente stupiscono anche i suoi fan. Grazia che accompagna l’intera puntata, fino alla sua chiusura perfetta ed emozionante.
Dopo essere stati allontanati dal Magic Castle, Gus accompagna Mickey a casa e, durante il tragitto in macchina, litigano per quanto appena accaduto. Arrivati da Mickey, lei lo invita a entrare in casa. Iniziano a fare l’amore prima su una sedia, come per scaricare la tensione del litigio, quindi a letto. A un certo punto, lei guarda lui e gli chiede: «Ti spiace se prendo il mio vibratore?». Gus abbozza un sorriso, lei tira fuori il vibratore dal cassetto e, dandogli le spalle, raggiunge l’orgasmo mentre lui la guarda inebetito.
Così, Love (e che bello questo titolo secco e asciutto, sospeso come l’intera serie tra l’umiltà dell’osservazione spicciola del quotidiano e l’ambizione di dire qualcosa di definitivo sul tema), è anche capire quando è il caso di farsi da parte, non sentirsi indispensabili, mettersi in gioco, riconoscere i propri limiti e scoprire la bellezza in quelli dell’altro. Love è malattia e cura, dipendenza e terapia insieme. Per questo è difficile non commuoversi quando, sui titoli di coda, parte Therapy di Loudon Wainwright III, la cui prima strofa recita:
I wonder why you love me, baby
I hardly love myself at all
I think we’re both a little crazy
We need some therapy that’s all
I’ll see a man, you see a woman
You need a mom, I need a dad
It’s not our fault we have this problem