Nel quarto episodio di Sense8 - la serie creata per Netflix dai fratelli Wachowski e J. Michael Straczynski e diretta dagli stessi Wachowski con la collaborazione di Tom Tykwer, James McTeigue e Dan Glass - uno dei personaggi, la DJ islandese Riley, sceglie dal suo iPod la celebre What’s Up delle 4 Non Blondes e inizia ad ascoltarla in cuffia, seduta da qualche parte nella periferia di Londra.
La stessa canzone, nello stesso istante, si diffonde nei sette luoghi del mondo dove sono sparsi gli altri protagonisti della serie, i "sensates", persone nate tutte lo stesso giorno e collegate fra loro da uno sviluppatissimo livello di empatia. Lo spettatore assiste allora a una versione della hit cantata a turno, oltre che da Riley, da uno scassinatore di casseforti tedesco che si esibisce al karaoke in un locale berlinese, da un attore spagnolo gay protagonista di pellicole messicane ultra kitsch, sdraiato su un letto assieme al suo amante e alla ragazza selezionata per sbandierare, in pubblico, la sua presunta mascolinità, da un ragazzo di Nairobi che guida un bus per pagare le cure alla mamma malata di Aids, da una donna d’affari di Seoul esperta di arti marziali mostrata nuda sotto la doccia, da un poliziotto di Chicago sulle tracce di una hacker transessuale di San Francisco, da una farmacista indiana promessa sposa di un ricchissimo uomo che non ama, ripresa su una terrazza di Mumbai e, addirittura, dalla stessa hacker che, immobilizzata su un letto d’ospedale, sta per subire una lobotomia.
Il ‘senso’ di Sense8 è già tutto qui, in questa incredibile sequenza sospesa tra il sublime e il camp, la magniloquenza e il ridicolo (volutamente costeggiato, quasi sfidato).
Progetto di enorme ambizione filosofica (come e più del bellissimo Cloud Atlas), Sense8 è un’opera che trascende il genere (anzi, i generi) per affrontare una serie di temi capitali. Così, in questa storia di "senzienti" sparsi per il mondo e capaci di entrare in collegamento psichico (ma anche fisico) fra di loro, inseguiti da una società segreta che ne vuole reprimere a forza la diversità, trovano spazio riflessioni di diversa natura. Politiche: se da un lato vengono mostrate idilliache immagini del Pride di San Francisco, dall’altro un attore deve nascondere la propria omosessualità per poter lavorare, una donna – ramo sacrificabile di una famiglia nella maschilista Seoul – si addossa le responsabilità di uno scandalo finanziario causato dal padre e dal fratello, mentre un’altra, in India, è tenuta a sposare l’uomo che la famiglia sogna per lei; sociologiche: in una società già così connessa, è possibile connettersi a un livello superiore senza rinunciare alla propria individualità?; religiose: gli autori guardano con condiscendenza all’ateismo, rigettano l’assolutismo e sembrano propendere per un sincretismo, anche culturale, improntato a tolleranza e rispetto reciproco; gender: se, come ha fatto notare Luca Malavasi, è lampante il parallelismo tra la ri-nascita dei personaggi nella nuova natura di senzienti e quella di Larry Wachowski, ri-nata come Lana in seguito al cambio di sesso, l’idea degli autori sul concetto di genere è sintetizzata, in maniera audace e definitiva, dalla clamorosa sequenza pansessuale che abbraccia tutti i sensates nel sesto episodio.
Per parlare di tutto ciò (e di altro, e poi di altro ancora), Sense8 sceglie una forma narrativa da grande romanzo popolare (l’intera serie è anche una scorribanda fra le forme del pop, con la celebrazione di icone come Van Damme e Conan il Barbaro), dominato da agnizioni, colpi di scena, ribaltamenti di prospettiva e, soprattutto, personaggi immediatamente riconoscibili per le cui sorti è impossibile non parteggiare.
Esperimento produttivo e autoriale complesso (è stato girato in nove città sparse in otto diversi Paesi, e i registi coinvolti non hanno scelto quali episodi dirigere, ma in quale location girare, così che, di fatto, ogni puntata è firmata da più mani), Sense8 è un commovente e spericolato atto di fede nel cinema e nella malìa del racconto, capace di emozionare ricorrendo a espedienti che, in altri contesti, risulterebbero detestabili (c’è addirittura un montaggio alternato fuochi d’artificio/amplesso) e che, per questa sua disarmante naïveté, si espone con candore suicida al cinismo parassitario che domina i social network.
Un’opera che lavora in profondità su una quantità impressionante di livelli, che riafferma con urgenza il potere dello sguardo (non a caso, è proprio uno sguardo a rappresentare la minaccia peggiore per i sensates) e il piacere infantile, totalizzante della visione.