Adattata dall'omonimo romanzo di Jay Asher uscito esattamente dieci anni fa, la serie marchiata Netflix Tredici (13 Reasons Why), creata per il piccolo schermo da Brian Yorkey, ha rapidamente catturato l’attenzione delle giovani generazioni – e non solo.
Hannah Baker (Katherine Langford), studentessa liceale suicida, Laura Palmer reinventata, ne è – paradossalmente – protagonista e voce narrante, organizzatrice di una storia che, sgrovigliandosi nel corso delle puntate, contamina il presente con il passato e attraversa la vita quotidiana del timido Clay Jensen (Dylan Minnette), i cui ricordi continuamente rievocati offrono allo spettatore l'appiglio visivo alle parole post mortem di Hannah.
Tredici è allo stesso tempo riflessione sul mondo e autoriflessione nell'esposizione della dicotomia tra analogico e digitale, la decennale battaglia sull'autenticità che colpisce il medium audiovisivo. Nella serie il digitale sembra incapace di veicolare una realtà autentica e, all'opposto, più propenso a distorcerla, alterarla, impaziente di sostituirvisi e forte nell'imporsi come nuova oggettività – realtà 2.0. Ma ancora più decisa si esibisce la vocazione di un ritorno a quel realismo originario, analogico, che è insieme nostalgia per un passato più genuino (e senza dubbio più innocuo) – quello dei rullini e dei negativi, dei nastri e delle cassette – e scetticismo nei confronti di un mondo che è sempre più alterabile, sempre meno vero, perché sempre più digitale.
La ricerca della verità è storicamente attitudine umana, disposizione di un uomo che, dalle domande sulla propria esistenza ai dubbi circa le azioni quotidiane dei suoi simili, si è sempre interrogato nel tentativo di scoprire le cause, di capire il “perché”. Questa è la provocazione di Tredici: e se la ragione delle tragedie che colpiscono l’essere umano fosse l'uomo stesso? Non il singolo, ma l'intera società, l’umanità in senso lato, incapace com'è di esaminare i sintomi di una patologia sociale che si sfoga in gesti più estremi.
Il perché delle cose, in Tredici, è spiegato postumo – dunque troppo tardi, come i provvedimenti adottati dalla Liberty High School. E viene svelato su cassetta, analogica come le fotografie di Tyler, e in quanto tale idonea a veicolare la verità. Tredici registrazioni, ciascuna dedicata a una persona – uno dei colpevoli – e ciascuna coincidente con una puntata della serie. Insieme a Clay ripercorriamo le ultime settimane di vita di Hannah e partecipiamo alla scoperta – nonché alla definizione – della verità, scavando più a fondo, riflettendo su noi stessi e interrogando gli altri, imparando a guardare il mondo in modo consapevole – e consapevolmente cinico. Fino a divenire artefici della verità, insieme a lui, con la quattordicesima registrazione, confessione incriminante del peggiore tra i giovani “carnefici”, e con l'opportunità di accedere ad altre vite, di sbirciare, come lo stalker Tyler, i momenti più privati e segreti dei personaggi. E scoprire che in realtà nessuno si salva, neppure Clay, al quale è dedicato uno dei nastri di Hannah.
La serie è un’aperta condanna alla società americana, genitrice di persone la cui sensibilità ha respiro solamente entro gli stretti confini del proprio io. “A lot of you cared, just not enough” è la sentenza della ragazza, che sancisce i limiti dell’egoismo e dell’egocentrismo che colpiscono ognuno dei membri del microcosmo della serie. Le istituzioni, dal liceo alla polizia, non fanno che convalidare tale decadenza, cieche come sono a quanto accade sotto i loro occhi – fino al punto in cui il preside non ha idea delle scritte sui muri dei bagni degli studenti, e l’agente di polizia, padre di Alex, si pone costantemente al di sopra della legge per negare giuridicamente qualsiasi responsabilità del figlio.
Perché, alla fine, in Tredici, la facciata è tutto. È sufficiente ripitturare i muri per fermare il bullismo, e basta tappezzare la scuola di poster contro l’autolesionismo per prevenire il suicidio. Ma è sempre un’apparenza che inganna, come i fiori in memoria della studentessa suicida arrangiati da una delle responsabili del suo decesso, e come la “radiosità” di Hannah allo sguardo della madre nel giorno della sua morte. È proprio questo fermarsi all’apparenza che impedisce al mondo adulto di aprire gli occhi a ciò che accade tra i giovani studenti – storie di alcol, droga, armi e violenza di ogni sorta. Ed è questo fermarsi alla superficie a compromettere chi è più debole. Una superficialità rappresentata dalle voci di corridoio, realtà alterate od omesse, ma indelebili più della verità.
“You can hear rumors, but you can’t know them”, ricorda Hannah nei suoi nastri – perché andare a fondo implicherebbe accettare una realtà troppo dura. Ed è qui che la cecità si trasforma in mutismo e sordità, nel preciso momento in cui basterebbe la comunicazione per cambiare le cose e comprendere quelle “reasons why” che danno il titolo alla serie, ma diventa molto più semplice mascherare il proprio io con abili stratagemmi e nascondersi dietro la convinzione che in un suicidio non ci siano colpevoli. La comunicazione diventa impossibile – o almeno inutile, come provano le infinite quanto sterili sedute dallo psicologo della scuola che, colloquio dopo colloquio, continua a saperne quanto prima. E, senza comunicazione, la verità soccombe, soffocata da un’omertà più che mai colpevole, definitiva sostituta di una trasparenza dimenticata. L’omissione sembra l’unica soluzione, nella convinzione che, ormai, il danno è fatto. Ma il passato può ritornare, la storia ripetersi e la società degenerare in un collettivo silenzio criminale.
Hannah Baker non è stata uccisa da un’offesa, da una voce, da una fotografia, né da una lista. Non sono i singoli individui, né i singoli torti, ma il loro totale, nei particolari di queste vite incrociate, dettagli impercettibili eppure eloquenti, attirati dal nucleo magnetico di una storia primordiale. Ecco smascherato l’assassino – “in the end, everything matters”.